LIBRO
QUARTO
Dei
Danni Dati
Nel trattare la materia dei "danni dati",
gli statutari hanno tenuto presente il principio proprio di tutte le comunità, e
particolarmente di quelle a prevalente economia contadina: la proprietà è
inviolabile, e qualsiasi prodotto appartiene al proprietario che lavora o fa
lavorare la terra che è sua.
La pena non è assegnata, perciò, in base
alla quantità dei frutti rubati, o al deterioramento del bene causato
dall'azione dannosa, ma per l'atto in se stesso, commesso dal furbo che ha
cercato di appropriarsi di quel che egli non aveva faticato a produrre.
Mentre gli statuti di Orte, nella stessa
materia, distinguono accuratamente i frutti e applicano la pena in rapporto alla
loro qualità e quantità, lo statuto di Bassanello non fa né questa distinzione
né questa valutazione.
Dice al cap. 80: "se alcuna persona
cogliesse fructi de arbore existenti in vigna ovvero in orto racchiuso, paghi de
pena trenta "solli" (soldi) de dì, (cioè se l'atto è stato compiuto di giorno)
et de nocte el doppio; se scotesse l'albero con bastone o saxo paghi pena
duplicata".
La pena non prevede mai l'arresto del
colpevole, ma solo il risarcimento del danno e il pagamento di una multa di
danaro che varia a seconda della circostanza in cui il danno è stato arrecato:
se con bestie grosse o "minute" o con bestie "fiocche" [1] se a vigna piena e a
prato pieno [2], se su un terreno "guardato" da un garzone o non "racchiuso"
[3], e così via.
Per tutte le pene vale sempre il principio
da noi già ricordato, cbe ogni multa veniva raddoppiata se il danno fosse stato
commesso dì notte.
Che fin da allora, gran parte dell'economia
agricola della comunità di Bassanello poggiasse sulla produzione e sulla vendita
del vino, lo dimostrano i numerosi capitoli (ben dodici) che nei libri IV e V
vengono dedicati alla salvaguardia delle vigne e alla vendita del vino. Alla
vigna si poteva recar danno in molteplici modi, direttamente e indirettamente.
Diretti era considerati i danni "dati manualmente" (cap. 71) o con bestie grosse
o minute (cap. 72) o con cani (cap. 81). Con l'espressione "manualmente" si
indica, in forma eufemistica, una persona che viene sorpresa a rubare una o
altri "fructi domestici" da una vigna o su un orto altrui.
La multa era piuttosto salata: 25 soldi se
si era rubato di giorno, 50 se di notte o in un orto "rechiuso". All'esame del
danno arrecato con bestie grosse o minute o fiocche è dedicato il lungo e
circostanziato cap. 72: se il fatto era avvenuto nel periodo che va dal primo
marzo a tutto il tempo della vendemmia, oltre al risarcimento del danno, la
multa, per ciascuna bestia grossa e per ciascun uomo, era di 15 soldi "et de
nocte il doppio"; ma se il danno era stato arrecato dopo la vendemmia fino al
primo marzo o se le bestie erano state introdotte maliziosamente in vigne
"racchiuse" o guardate da un garzone oppure "a campano otturato", la pena saliva
a 20 soldi.
Piazza Umberto I° - 1935 -
(Collezione Privata Giuseppe Purchiaroni)
Multe minori erano applicate per le bestie
minute, purché però non fossero "fiocche": in questo caso la pena non si pagava
più in soldi, ma in "libre", cinque se di giorno e dieci se di notte. Curioso il
marchingegno studiato dagli statutari per impedire ai cani di accostar la bocca
ai grappoli d' uva in una vigna: "qualunque persona bavera un cane", dal primo
settembre "finché verrà vendemmiato", aveva l'obbligo di attaccargli al collo un
uncino di legno, lungo un palmo (cap. 81).
La vigna poteva, inoltre, essere
danneggiata indirettamente in molti modi: sfrondando le viti o i canneti,
rubando i pali di sostegno o le canne dai canneti (cap. 87) seminando grano o
biada o erbe nei solchi oppure togliendo i passoni di recinzione, rovinando o
addirittura bruciando la fratta "o altri apparaticci", passando attraverso
terreno seminato, dal primo gennaio fino al raccolto, con bestie grosse o minute
( cap. 94). In questi casi la multa aumentava da 2 a 40 soldi.
I danni causati in un prato vengono
esaminati nel cap. 73 [4].
Il "dies a quo" cioè il giorno a cominciare
dal quale il prato doveva essere salvaguardato era il primo marzo: non è
leggibile, purtroppo, la parte che doveva indicare il "Dies ad quem", cioè il
giorno oltre il quale la norma era sospesa, anche se dovrebbe supporsi, in
parallelo con il Cap. 78, il primo novembre. Anche in questi casi la multa,
oltre "la menda" cioè il risarcimento del danno, era diversa, a seconda che si
trattasse di bestie grosse o minute o "fiocche" o di "porcelli". Gli altri
animali minuti potevano pascolare senza pagar multa, a meno che vi fossero stati
immessi "studiosamente", cioè con l'unico fine di far danno. Gli stessi criteri
venivano applicati per fissare la multa per danni dati "alle biade di altri"
(cap. 75) o alla canape, al lino e al miglio (cap. 77), ai lupini [5] (cap. 78)
e ai legumi in genere (cap. 79).
La multa era più o meno grave a seconda che
il danno fosse stato arrecato da bestie grosse o "minute" o "fiocche", e le
biade si trovassero già "accollate", cioè raccolte e ammucchiate in "barconi" ("varconi").
Anche nei capitoli che contemplano il furto
di canne (cap. 82) di paglia o di fieno (cap. 83), di piantoni [6] "ovvero
maglioli" [7] oppure il "refare l'ara", cioè il ripassare sull'ara senza il
permesso del padrone per raccogliere la paglia caduta, oppure portar via un
sacco di gregne di grano e di erba "tolta da lochi de l'altri" (cap. 93), viene
chiaramente riaffermato il principio della sacralità della proprietà.
La gravita di tali azioni, infatti, non è
valutata tanto in rapporto al danno arrecato, quanto piuttosto al fatto stesso
di aver immesso bestiame a pascolare in un casale "rinchiuso", intorno al quale
vi fosse un orto o una vigna (cap. 90). Per questo, la multa era, in proporzione
al danno arrecato, piuttosto salata: andava da 20 soldi, per chi raccogliesse
paglia sull'ara altrui, a soldi 50 "et anche el doppio per chi ne rubasse una
"soma"[8] da un pagliaro (cap. 83).
Una multa di 30 soldi era minacciata a chi
rubasse frutta da alberi "domestici" (cap. 86) in una vigna o in un orto "rechiuso";
la pena era raddoppiata se il ladro avesse scosso l'albero con un bastone o con
un sasso. 1 frutti appartenevano certamente al padrone del terreno in cui
l'albero era piantato; ma se l'albero protendeva il ramo sulla pubblica via
chiunque poteva coglieva i frutti: lo stesso diritto apparteneva al padrone di
un terreno su cui il ramo si protendeva, purché però ci arrivasse non con la
scala ma con le sue mani, anzi, in questo caso poteva tagliarlo anche con il
roncio (cap. 85).
Anche la canna rientrava nel numero delle
piante necessarie per chi coltivava una vigna: ad esse, conficcate, ad
intervalli, nel terreno, diritte o a croce, lungo i filari, si appoggiavano
durante la potatura i tralci migliori della vite, legati con vettoli.
L'accenno con cui gli statutari ne
difendevano la cultura (cap. 82 e 87) sono di grande interesse: essi ci rivelano
un modo di custodire la vigna che, in rapporto al tempo, può considerarsi
all'avanguardia nei confronti di altri paesi agricoli. Infatti, là dove, come ad
Orte, prevaleva la produzione agricola a carattere misto, la vite veniva di
norma appoggiata ad un albero di olmo. A Bassanello, invece, sorretta da una
canna conficcata nel suolo, poteva assorbire per intero le sostanze organiche di
un terreno fertile, e produrre, quindi, un vino ben più robusto e gradevole.
Giustamente, perciò, gli statutari in tre
capitoli ne difendono la coltura. Nel primo (cap. 82) fissano la pena di 5 soldi
per coloro che "facessero fronda" che, cioè, ne togliessero le foglie; nel
secondo (cap. 87) puniscono con una multa di 10 soldi coloro che le rubano dai
canneti e nel terzo (cap. 88) chi le danneggiasse con bestie grosse o minute. Il
cap. 91 richiama i contadini al dovere di proteggere ("chiuderli") i terreni
seminati e di non recar loro danno, passandovi sopra con bestie grosse o minute,
dal primo gennaio fino al raccolto. È prevista una sola eccezione nel caso in
cui il terreno fosse presso una strada e questa non permettesse temporaneamente
il passaggio.
Non solo i terreni seminati, ma anche gli
orti che si trovavano entro e fuori le mura dovevano essere oggetto di
particolare attenzione.
Il cap. 92, oltre a far obbligo di
chiuderli e di lavorarli, puniva con una pena di 20 soldi chi trascurasse di
farlo e, addirittura, proibiva di stendere panni sulle siepi che li circondavano
e sugli "apparati", cioè sul complesso dei mezzi con cui venivano sostenuti e
protetti gli ortaggi che vi si coltivavano (libro V, cap. 136).
La cultura di questo tipo di terreno, dal
quale si traevano ortaggi e verdure per buona parte dell'anno, era ritenuta
tanto importante per gli interessi della comunità che un apposito capitolo, il
138 del libro V, imponeva a ogni famiglia l'obbligo di "fare l'horto" e di
seminarvi ogni anno almeno cento capi di aglio e cento piante di cavoli.
Vasanello - Giardini
Pubblici - (Collezione Privata Giuseppe Purchiaroni)
In due capitoli vengono tutelati i diritti
degli affittuari e quelli dei concedenti. I primi (cap. 94) potevano denunciare
direttamente e farsi risarcire il danno ricevuto anche se il proprietario "non
volesse"; ai proprietari (cap. 95) veniva riconosciuto il diritto di concedere
in affitto i propri terreni ("dare licentia de le sue possessioni") a qualunque
persona, a patto però che fosse stato a ciò autorizzato dal padrone con un
contratto depositato dinanzi al Vicario e, in mancanza, con un giuramento.-
Per procedere all'inquisizione sui danni
ricevuti c'erano delle norme precise da osservare. L' accusa, per essere accolta
(cap.96), doveva essere presentata al Vicario entro 3 giorni dal danno ricevuto
("da poi el danno"); perché fosse creduta era sufficiente il giuramento
dell'accusatore, se il danno comportava una multa di 20 soldi. Occorreva invece
che il dannificato "havesse parlato" al danneggiante, se il danno comportava una
pena di 30 soldi; se la pena era di 40 soldi, occorreva la conferma di un
testimone. Per una multa maggiore (libro V, cap. 132) l'accusa doveva esser
confermata da un numero crescente testimoni, fino a un massimo di sei, "da sei
in su non siano creduti in giudizio". Non erano ammessi a testimoniare i minori
di 10 anni e sulla loro età faceva fede il giuramento del padre e della madre
(cap.97) Fino al concilio di Trento, che ordinò ai parroci di istituire il libro
del battesimo, era questo l'unico modo per attestare la data di nascita di un
figlio.
A proposito di minori, nel cap. 98 viene
esaminato il caso, certamente non raro, di un ragazzo minore di 14 anni che
inviasse a far danno su un fondo altrui, o direttamente ("manualmente") o con
bestie, un suo compagno minore di 12 anni. Si trattava di una sconcertante e
sottile forma di delinquenza minorile, appositamente studiata per sfuggire alle
norme generali, nei confronti della quale gli statutari, con estrema fermezza,
ordinano di applicare a "tal mandante", una multa doppia di quella fissata per
le persone di maggiore età.
Nell'applicare la multa per un danno dato,
su esplicita richiesta di una delle parti, il Vicario era tenuto a procedere
"per inquisizione" (cap. 100), cioè a fare accurate indagini per accertare la
verità del fatto e per valutare, in rapporto alla stima del danno arrecato, la
multa da applicare e da far riscuotere a favore di chi l'aveva subito ("al
patiente"); e se questo fosse stato negligente, cioè non ne avesse fatto
richiesta, se voleva essere risarcito, era tenuto "a refare del suo ne la
scindacata", cioè a rinnovare l'inchiesta a spese proprie. Se poi quel tipo di
danno non era contemplato nello statuto, il Vicario aveva la facoltà di
applicare la stessa pena stabilita per un danno "che li paresse simile" (cap.
101). Se, però, a giudizio del paziente, sia lui che gli ufficiali "prò tempore"
avessero commesso qualche parzialità o favoritismo o negligenza, alla
conclusione dell'incarico, chi si riteneva danneggiato lo poteva denunciare
"della mala iustitia" ai tre sindacatori scelti dal fattore e dagli ufficiali;
questi, seguendo la rigida procedura già indicata nel cap. 5 del libro I,
dovevano emettere, sul comportamento da quello tenuto in tale circostanza, un
giudizio definitivo.
Nei confronti di un "dannificante"
forestiero (cap. 102) che non potesse o non volesse pagare la multa, era
concesso ("sia lecito") il diritto di pignorare, cioè, di avviare il processo di
espropriazione forzata di determinati beni mobili o immobili da lui posseduti.
La procedura da seguire in casi normali in
cui erano coinvolti i cittadini era stabilita nel cap. 112 libro V: il castaldo
del comune, per incarico del Vicario, doveva presentarsi nella casa della
persona a carico della quale era stato richiesto il pignoramento, e scegliere
l'oggetto che, a suo giudizio, meglio si adattava al caso.
Se qualcuno si fosse rifiutato di
consegnarglielo o addirittura lo avesse fatto sparire ("non lassasse stare el
pegno") veniva punito con una multa di 5 soldi, e se lo avesse negato al Vicario
in persona la multa saliva a 20 soldi. Nel caso specifico dei pignorati
forestieri la multa era doppia di quella prevista dallo statuto per il danno
commesso.
Il mobile pignorato doveva esser consegnato
al Vicario entro il termine perentorio di tre giorni (altrimenti "sarebbe
cascato in pena di 20 soldi"), e sarebbe stato messo in vendita se entro un
determinato tempo il pignorato non avesse pagato l'importo del danno dato.
Alla tutela delle querce o di altri alberi
fruttiferi erano riservati i cap. 103 e 104. Con il primo, volto soprattutto a
salvaguardare il raccolto delle ghiande, chiunque avesse introdotto bestiame in
un cerqueto dalla festa di San Raffaele Arcangelo (30 settembre) alla festa di
Sant'Andrea (30 novembre) sarebbe stato condannato alla multa di un bolognino
per ogni bestia grossa e di 5 carlini per ogni "fiocca", di animali minuti. Con
il secondo si puniva con una multa assai severa chiunque avesse osato tagliare
in una vigna o in un orto un albero da frutta (10 libre) o un ramo di esso (5
libre) oppure una quercia (5 libre) o un ramo sano di essa (2 libre e mezza) o
altri alberi non fruttiferi ("el mezzo della detta pena") cioè la metà della
pena comminata per taglio di una quercia.
Il cap. 105 con il quale si chiude il libro
IV contiene una solenne ammonizione sulla sacralità del giuramento che doveva
essere da tutti rispettato, perché su di esso, nella inquisizione dei danni
dati, si fondava la validità dell' accusa "ad reprimere la temerità di quelli
che non temono Dio", e non esitano a fare il male, confidando nell'omertà dei
paurosi o nella solidarietà dei malvagi. Gli statutari si appellano alla
coscienza religiosa dei testimoni (potevano legittimamente testimoniare tutte le
persone maggiori di 12 anni) perché rispettando il giuramento dicessero il vero
e non tacessero ciò di cui erano a conoscenza.
Il capitolo ricorda che qualunque persona
maggiore di 12 anni, "examinato dal Podestà di Bassanello" nel corso di una
inchiesta a seguito di una accusa, facesse un giuramento falso, sarebbe stata
punita con una pena di "libre 12 paparine". È interessante notare che è questa
l'unica volta che gli statutari assimilano la figura del Vicario a quella del
Podestà.
Vasanello dall'Alto -
(Collezione Privata Giuseppe Purchiaroni)
[1] - In base al cap. 72 "la
fiocca se intende da venticinque in su bestie minute".
[2] - A scanso di qualsiasi
equivoco e di qualsiasi discussione, un terreno era considerato "prato con
fieno" solo se il proprietario (cap. 73) aveva fatto conoscere questa
qualità per meno di un bando proclamato dal
Castaldo del comune e aveva contrassegnato il terreno "con alcuni segni".
Altrimenti, ammoniscono gli statutari, non se
intenda per prato.
[3] - Il cap. 71 stabilisce che un
orto o un terreno "se intenda -racchiuso- se avrà tre lati recintati con siepe o
Carbonare o mozze o ripe".
[4] - La scrittura di questo
capitolo presenta nel testo originale diverse lacune. Il maestro Porri, cui va
tutta la nostra riconoscenza, ha potuto ritrascrivere solo la parte
leggibile.
[5] - I lupini erano il seme del "lupinus
albus", una pianta con fusto snello, alta fino a un metro, con foglie glabre e
villose di sotto e fiori bianchi, che venivano coltivati come
pianta di foraggio e di sovescio. I semi,
con involucro piuttosto spesso, avevano una sostanza amara e velenosa che veniva
tolta facendoli macerare in acqua.
Dalle nostre parti servivano per
l'alimentazione dei bovini e, cotti e salati, anche per l'uomo. Erano chiamati
anche "la fuscia". Una gentile tradizione diceva che nell'orto
degli ulivi, con il loro rumore,
segnalarono la presenza di Gesù. Per questo furono maledetti e non saziavano mai
tutti coloro che li mangiavano.
[6] - Nel linguaggio della nostra
zona il termine "piantone" è usato unicamente per indicare l'ulivo. Nello
statuto di Bassanello il termine è usato nel suo linguaggio originario
(sec. XIII) di pianticella allevata nel
semenzaio e pronta per essere interrata, oppure di pollone pronto per essere
trapiantato.
[7] - Il "magliolo" già attestato
nel secolo XV, è un giovane ramo spuntato ai piedi del tronco di un albero o
dalle radici di una vite, fornito di una o più gemme cui si lasciava
alla base un ferretto di tralcio vecchio,
in modo da formare come un martelletto, che si interrava per fermare una nuova
vite.
[8] - Era un'unità di misura di
prodotti liquidi o solidi, equivalente al carico da trasportare con il "basto"
sul dorso di un asino o di un mulo: Poteva variare da 70 a 120 Kg.
A Bassanello valeva Kg. 87. (Cfr.:
Tavola di ragguaglio dei pesi e misure già in uso nelle provincie del regno col
sistema metrico decimale". Edizione ufficiale, Roma,
Stamperia reale 1877).