LIBRO
TERZO
Delli
Malefitii
Le norme che regolano questa parte dello
statuto presentano interessanti novità.
L'uso della tortura, come strumento
giudiziario per estorcere all'imputato una confessione o una dichiarazione utile
ad accertare i fatti, fu applicato nella Grecia solo per far confessare gli
schiavi.
A Roma, oltre che agli schiavi, fu
applicata nel periodo repubblicano anche per gli uomini liberi solamente in casi
molto gravi, ma venne estesa largamente quando i privilegi vennero ristretti a
poche classi di persone.
Nel periodo imperiale la tortura venne
usata nelle persecuzioni contro i cristiani non per far confessare un qualche
delitto, ma per costringerli a rinnegare la propria fede. Con la calata dei
barbari, l'uso della tortura cominciò a venir meno, e la prova d'innocenza o di
colpevolezza nei processi venne da loro fondata sul "giudizio di Dio", cioè in
un esperimento di coraggio e di resistenza al dolore o, anche, su un duello fra
sostenitori di due opposte affermazioni, in cui Dio stesso sarebbe intervenuto a
far vincere quello che dei due avrebbe detto la verità.
Soltanto dopo l'anno mille, con la ripresa
degli studi di diritto romano e la rafforzata coscienza dell' autorità e delle
funzioni dello stato, la prova del giudizio di Dio venne definitivamente
eliminata e, al suo posto, sia nei grandi stati, come nella Sicilia di Federico
II, sia negli statuti dei liberi comuni, venne reintrodotto lo strumento della
tortura, come mezzo di indagine e di pena.
Negli statuti di Orte, accanto a multe
pecuniarie e a periodi di detenzione in carcere, vengono previste, in certi
casi, anche pene corporali. talvolta dure e severe, applicate secondo la legge
del taglione ("similis oculus") e, per colpe ancor più gravi, come il
parricidio, il matricidio, il tradimento della città, la pena di morte con
ludibrio.
Lo Statuto di Bassanello
Le norme generali che regolano questa parte
dello statuto di Bassanello non contengono, invece, nulla di tutto questo:
l'assenza di ogni efferatezza, anche nella pena di morte, si accompagna
addirittura ad enunciazioni di principi che preannunciano in qualche modo norme
che saranno poi proprie della legislazione moderna.
Questo fatto trova una spiegazione del
diverso quadro storico in cui quelle norme furono fissate. Infatti, la stesura
del primo statuto che accompagna la trasformazione della comunità ortana dal
regime feudale allo ordinamento comunale, secondo una preziosa testimonianza del
Leoncini, avvenne, nell'anno 1200, quando era papa Innocenzo III (1198-1216)
[1], nel periodo appunto in cui, con il rifiorire del diritto romano, venne
rimessa in vigore la tortura come strumento di confessione e di pena.
Questa impostazione di base rimase
inalterata negli statuti ed ebbe conferma anche nell' ultima formulazione,
approvata da Gregorio XIII nel 1584. Lo statuto di Bassanello riflette, invece,
la mentalità propria di una fase storica e spirituale assai diversa.
La tremenda esperienza del passaggio dei
Lanzichenecchi aveva suscitato nella società civile, già permeata di fermenti
umanistici, una ben diversa considerazione della persona umana, un'atmosfera
nuova di solidarietà e di apertura, tanto più rapidamente acquisita quanto più
essa era piccola, dove, perciò, tutti si conoscevano e dove il costume familiare
e i rapporti sociali erano più sani e corretti di quanto non lo fossero nei
grandi centri urbani.
Che una tale atmosfera abbia influito nella
formulazione delle norme penali, rispettose dei diritti umani anche quando la
comunità era governata da un signorotto, non solo non desta meraviglia, ma ci
sembra piuttosto la riprova di quanto abbiamo già osservato, che, cioè, fin dai
primi decenni del sec. XVI, almeno negli stati della chiesa, l'immagine cupa e
spietata del Prìncipe non corrispondeva più a quella che veniva delineando il
Machiavelli e ci fu poi tramandata dalla cultura illuministica.
Nelle norme di procedura penale (cap. 32),
gli statutari di Bassanello riaffermano con chiarezza il principio giuridico che
"li delitti non dovevano rimanere impuniti" e che per qualsiasi "delicto" era
necessario procedere "contra tutti li delinquenti et punirli", ma con
altrettanta chiarezza stabiliscono che la punizione doveva essere applicata non
più secondo l'arbitrio e il capriccio del Vicario, ma "secondo la forma del
presente statuto", cioè sulla norma che le comunità si era data. Per arrivare
alla sentenza infinitiva bisognava percorrere un iter chiaro, ordinato e ben
articolato, che garantiva il massimo rispetto della persona e dei diritti
dell'accusato, e la punizione era prevista con tutte le sue possibili
alternative.
Il Pozzo all'Interno del
Castello (Archivio Archeoclub Vasanello)
Il
capitolo prevede anzitutto che, non appena ricevuta la notizia o la denuncia di
un delitto, il Vicario doveva promuovere un'indagine ("fare inquisizione") e
raccogliere gli elementi a carico dell'indiziato; quindi, doveva fargli
consegnare, per mezzo del castaldo, personalmente se lo trovava, oppure alla
casa "della solita abitazione", davanti a due testimoni, una "cedola scritta",
con la quale lo avvisava del risultato dell'inchiesta svolta a suo carico e, al
tempo stesso, gli ordinava di presentarsi alla corte entro tre giorni, per
difendersi "et excusarsi di tutto quello di cui era accusato.
A questo
punto, la norma prevede due ipotesi:
a) - che
l'imputato non si presentasse entro il tempo stabilito: in questo caso il
Vicario doveva "mettere" un bando per le strade del paese, con l'annuncio del
delitto di cui l'imputato era accusato, della pena cui sarebbe stato condannato
secondo le norme dello statuto e con l'avvertimento che, entro otto giorno,
doveva presentarsi per difendersi dinanzi alla corte. Se, allo scadere di questo
tempo, né lui né qualche altro, a nome suo, si fosse fatto vivo "per fare sua
difesa", con un nuovo bando "giù in piazza, denanzi a due testimoni -fede
degni-", lo avrebbe condannato come contumace e confesso.
b) - Se,
invece, l'imputato si fosse regolarmente presentato e il Vicario lo interrogava
("lo admetteva alle sue risposte") e si faceva dare "bona fideiussione", cioè
una garanzia che sarebbe stato alle decisioni del tribunale ("alla rascione") e
avrebbe pagato la condanna, allora "poteva con sicurtà relassarlo"; se invece il
caso era grave ("altrimenti") lo avrebbe dovuto tenere "sotto bona custodia fino
che per sententia fosse absoluto o condannato".
Anche
nello svolgimento del processo si potevano verificare due ipotesi:
a) - che
l'accusato confessasse di aver commesso il delitto, e allora, gli venivano
concessi otto giorni di tempo "per far sua difesa", trascorsi i quali il vicario
procedeva ad emettere la sentenza;
b) - se
invece respingeva tutto o in parte le contestazioni a lui presentate, allora
spettava al Vicario portare le prove della sua colpevolezza, convocando
testimoni, procedendo a interrogazioni, ricercando conferma degli indizi
raccolti; ed esaurita questa fase, doveva pubblicare gli atti del processo e
consegnare copia all'accusato, dandogli un termine di tempo per potersi
difendere: dopo di che emetteva la sentenza che, trascorsi i giorni concessi per
l'appello, diventava esecutiva. Ricordiamo che, di norma, tutte le pene
pecuniarie venivano raddoppiate, quando l'azione colpevole veniva commessa di
notte.
Nei sei
capitoli che vanno dal n. 33 al n. 38 erano previsti tre modi di offendere una
persona: con bestemmie e parole ingiuriose; con mano "vacua"; con mano armata ,
con rapina e con omicidio.
Contro i
bestemmiatori (cap. 33), cioè contro coloro che scagliavano insulti e parole
ingiuriose contro Dio, contro Gesù Cristo e contro la Madonna e i Santi il
Vicario poteva procedere "di fatto", senza allestire processi e senza facoltà di
diminuire la pena.
La
bestemmia era sempre considerata un'ingiuria grave: negli statuti di Orte (libro
3 cap. 2) era prevista, per i bestemmiatori e per coloro che giuravano in modo
vituperoso sul corpo di Dio e della Beata Vergine, una pena di 25 ducati ogni
volta; se, però, la bestemmia era divenuta abituale, allora la pena era doppia
per ogni volta e se non veniva pagata entro 10 giorni, il bestemmiatore veniva
fustigato nelle carni nude per tutto il territorio di Orte e messo in carcere
per due mesi.
Nello
statuto di Bassanello, la pena per chi avesse bestemmiato il nome di Dio, di
Cristo e della Beata Vergine Maria consisteva in una multa pecuniaria in danari
paparini, la cui somma non è ritrascritta (forse perché nel testo originario era
stata cancellata e aggiornata più volte), e con la permanenza di un giorno e una
notte nel pozzo del castello: per chi avesse bestemmiato contro gli apostoli e i
santi "el mezo de la detta pena"; "per il Corpo e il Sangue de Dio, de Christo
et de la vergine Maria", la
pena di due carlini; contro altri santi, un carlino.
Il capitolo, ci rivela inoltre che era
diffusa anche una forma di bestemmia piuttosto oscena ("per gli altri membri
putibondi"): in questo caso, la pena era di due libre se faceva riferimento a
Dio, a Cristo e alla Vergine, di un carlino se il riferimento era rivolto ai
santi. Interessante, anche per le note di costume in esso contenute, è l'elenco
delle parole che si ritenevano ingiuriose (cap. 34): "se intendono parole
ingiurioso queste et simili: traditore, latro, cornuto, assassino, rufiano,
falsario, usuraio, homicida, adultero, sodomita, maliario (stregone), pegiuro
(spergiuro) e tristo homo de mala fama".
La pena per ciascuna parola ingiuriosa e
per ogni volta era di venti soldi. Se queste parole erano rivolte a una donna
"de bona fama" allora la pena era ridotta della metà. Per nessun motivo,
insomma, e giustamente, gli statutari permettono che alla donna in quanto tale,
fosse anche di dubbia fama, si mancasse di riguardo e di rispetto.
Maggiore severità dimostrano, invece, nei
confronti dei calunniatori: questi vengono puniti con la multa di "venti libre
de denari" e con l'obbligo di restituire loro la buona fama in tutti i luoghi in
cui avevano diffuso la calunnia [2].
La pena era raddoppiata, se a diffonderla
era persona che non godesse buona fama.
Due capitoli trattano con minuziose
distinzioni le offese arrecate con percosse a mano armata (arma, bastone e
sasso) o a mano "vacua" (pugni e "bussecto").
Chi colpiva la persona con qualsiasi forma
di arma (cap. 35) dalla gola in su e con spargimento di sangue, era condannato a
una pena di sessanta danari paparini; senza spargimento di sangue, con una pena
di trenta libre; se c'era stata una frattura di osso, pena raddoppiata e
risarcimento de danni.
Chi colpiva invece una persona dal collo in
giù e con spargimento di sangue, la pena era di 40 libre; senza spargimento di
sangue, di venti. Ma se il colpito era rimasto invalido, la pena veniva
stabilita da "due uomini, periti nell'arte di medicare".
Ancor più articolati, i casi di percosse a
mani vuote, con pugni e bussetti [3] (cap. 36): per percosse, dalla gola in su,
multa di 10 libre se con spargimento di sangue, altrimenti multa di 5 libre; dal
collo in giù senza spargimento di sangue, trenta soldi; con spargimento di
sangue sessanta soldi, per ogni colpo e per ogni volta. Se durante una lite, uno
pigliava l'altro per i capelli, e "gittasselo a terra", la pena era di 10 soldi;
la metà, se non lo gettava per terra. Se lo pigliava a calci, cinque soldi per
ogni calcio e per ogni volta, il doppio se lo gettava a terra.
Nel cap. 37, gli statutari precisano con
chiarezza che se l'aggressore "muovesse per cinque passi contro lo insultato",
allora il reato da lui commesso si configurava come "adsalto" e assumeva perciò
particolare gravita: se avveniva a mano armata, entro le mura del castello, la
pena era di 10 libre paparine; se in casa propria, di 20 libre di danari; se
fuori le mura, dieci libre. La pena veniva dimezzata in tutti i casi, se l'
"adsalta" era avvenuto senza armi.
Il capitolo si conclude con una
assicurazione di principio: "et allo adsaltato volemo sia lecito se defendesse,
senza alcuna pena".
Due erano i delitti per i quali era
prevista la pena di morte: l'omicidio (cap. 38) e l'incendio volontario della
casa altrui dentro le mura del castello (cap. 42).
Per l'omicidio commesso entro il territorio
era prevista la pena di morte mediante il taglio della testa ("in tal modo che
mora et l'anima dal corpo si separi") e la confisca dei beni.
Negli statuti di Orte i beni confiscati
erano divisi tra il comune e i figli e i parenti stretti dell'ucciso.
A Bassanello venivano condannati anche
coloro che avevano accompagnato l'omicida. Poteva accadere che l'omicida
sfuggisse alla cattura: in questo caso il Vicario "metteva in bando" che era
stato condannato a morte e che entro 20 giorni gli confiscava i beni.
Al reo non era mai più permesso di
ritornare a Bassanello, a meno che i famigliari dell'ucciso non lo avessero
perdonato. Tuttavia, i beni gli sarebbero stati egualmente confiscati ed
avrebbero dovuto pagare per intero la pena che il Principe ("la corte") avrebbe
stabilito.
Lo statuto non contemplava il caso di
parricidio, di matricidio o di parenti stretti della famiglia.
A Orte costoro erano condannati a una forma
di pena che era definita "morte con ludibrio": il reo veniva legato alla coda di
un asino e strascinato per tutta la città, fino al luogo del giudizio, dove
sarebbe stato decapitato e infine fatto a pezzi. Lo statuto di Bassanello prende
invece in esame l'ipotesi di un figlio che arrivi a percuotere il padre e la
madre, in un capitolo (il 67), la cui formulazione rivela l'orrore che fatti di
tal genere suscitavano in una comunità fondata sui principi morali e sulla
sacralità della famiglia. Ordinano, infatti, gli statutari: "Chiunque, per
diabolico spirito instigato, centra l'officio dalla pietà, percotesse suo padre
et sua madre o altramente la mano violenta a dosso li mectesse" doveva essere
chiuso dal Vicario nel pozzo per 15 giorni e per 15 notti "sensa audentia",
senza cioè che alcuno gli rivolgesse la parola, trascorsi i quali "in
ginocchioni" doveva chieder perdono ai genitori davanti a tutto il popolo [3].
Rigide disposizioni vengono stabilite dagli
statutari nei confronti dei "male intezionali".
Tali erano considerati coloro che entravano
nel Castello, o ne uscivano, per luoghi diversi dalla parte della Piazza, "ad
presso la Rocca".
Per costoro la pena era di cinque libre, ma
la cifra veniva quadruplicata se cercassero di uscire con scale e funi "al di
sopra o al di sotto alla porta".
Nessuno poteva andare in giro armato entro
il paese senza la licenza dei signori o del Vicario: pena, una multa di cinque
danari, il sequestro dell'arma e il soggiorno nel pozzo per tre giorni e tre
notti (cap. 40). Per le offese arrecate alla persona nella "roba" con il furto o
l'incendio, era prevista una pena di carattere pecuniario, in una misura
progressiva crescente, grosso modo, secondo il quadrato della sostanza: per un
furto del valore di 10 soldi il ladro ne doveva restituire venti; per un furto
del valore da 10 a 40 soldi, la multa cresceva da 40 a 100 a 10 libre; da 100 a
300 soldi, a 30 libre; da 300 soldi fino a 400, la punizione veniva fissata ad
arbitrio del Vicario e "delli Signori"; da 500 soldi fino a qualunque ulteriore
quantità, si applicava la pena "secondo li termini della rascione comune": quali
fossero questi termini gli statutari non precisano. Forse, volevano suggerire al
Vicario di tenere conto nello stabilire la pena delle reazioni del popolo e del
risentimento generale.
L'incendio, intenzionalmente provocato
"dove alcuno havrà cose et ce riponesse robe" entro le mura del paese era
considerato un delitto tanto grave da esser equiparato a un omicidio, e perciò
punito con la pena di morte ("habbia ad essere decapitato"): se invece il fuoco
fosse stato appiccato a una casa fuori del paese, oppure a un'ara "dove ancora
fosse conservato il grano o i barconi [4] di biada", veniva tagliata
all'incendiario la mano destra.
All'infuori dell'omicidio e dell'incendio
della casa, è questo l'unico delitto che veniva punito non già con una multa ma
con una pena applicata alla persona.
Negli statuti di Orte, prima della
revisione del 1584, questo tipo di reato veniva punito con la pena di morte
mediante il rogo ("igne comburatur ita quod moriatur"), secondo la legge del
taglione: chi aveva bruciato il grano, necessario a conservare la vita, doveva
essere a sua volta bruciato.
Con la revisione del 1584, la pena
ordinaria era stata fissata in una multa di 200 libre e nel pagamento al padrone
di una somma doppia del valore del grano bruciato. La pena di morte era rimasta,
ma si applicava solo nel caso che il reo non si trovasse in condizione di pagare
una somma tale.
È da osservare che, sia nello statuto di
Bassanello che in quello di Orte, la pena non faceva alcun riferimento alla
quantità di grano bruciato, ma all'azione criminosa in quanto tale perché
danneggiava non solo il proprietario ma anche la comunità nel suo complesso,
trattandosi di un prodotto essenziale per la vita. Puniti con pene varianti da
10 a 30 libre erano coloro che incendiavano la paglia sull'ara o i pagliai di
fieno o gli erbaggi in un orto, prima del 15 agosto.
I capitoli 43 e 44 trattano di alcuni
particolari aspetti dell'adulterio e della sodomia, considerati un delitto,
l'uno contro la famiglia, l'altro contro la dignità della persona umana. L'uomo
che aveva commesso adulterio con persona consenziente e senza violenza, solo se
denunciato da qualcuno dei parenti della donna, veniva punito con una multa di
50 libre di danari [5]; se invece aveva commesso "stupro" cioè violenza carnale,
allora veniva punito secondo la "pena legale", a meno che i due non si
accordassero per sposarsi, nel qual caso per lo stupratore era previsto solo
l'obbligo di fare lui stesso la dote alla donna "secondo lo stile delle altre
doti".
Che cosa debba intendersi per "pena legale"
lo statuto di Bassanello non dice espressamente, ma dall'esame comparativo di
altri statuti baronali, come quello di Rocca di Papa, emanato dal Principe
Giovan Battista Savelli nel 1547, possiamo dedurre che, con quella formula, si
voleva dire che per certi delitti di particolare rilievo, la misura della pena
veniva rimessa di volta in volta "ad arbitrium domini", cioè alla libera scelta
del principe. Molto più chiari e sbrigativi in questo campo gli statuti di Orte
(1. III, Gap 17). Per l'uomo che avesse avuto rapporti carnali con una donna
consenziente, la pena era di 100 libre di denari, anche se non c'era stata
denunzia da parte della famiglia di lei.
La pena era invece il taglio della testa
("così che venga separata dal corpo") se c'era stata violenza nei confronti di
una donna sposata o di una fanciulla.
Per i sodomiti (cap. 44) di età maggiore di
25 anni, la formula usata, "che siano puniti secondo la legge civile, trova
riscontro nel libro III, cap. 18 degli statuti di Orte, con la differenza che
l'età qui è abbassata a 18 anni. Anche in questo caso, lo statuto non specifica
quale sia stata la pena fissata dalla "legge civile", a meno che si sia voluto
di proposito tacere quello che lo statuto baronale di Mugnano in Teverina, feudo
della famiglia Orsini, dice con brutale chiarezza: i sodomiti sorpresi sul fatto
dovevano essere immediatamente puniti con il taglio degli organi genitali.
Anche per i minori di 25 anni la pena,
solamente multa pecuniaria, non era certamente leggera: 100 libre di denari da
pagarsi a metà da ciascuno se consenzienti; per intero dall' "agente", se c'era
stata violenza. Una pena singolare era riservata per che rubava "cupelli" di api
(cap. 45): 15 libre di denari per ogni cupello: ma se il ladro ne avesse rubato
più di cinque, allora "volemo che sia frustato per tutta la terra di Bassanello".
Multe in danaro (20 soldi) erano riservate
a chi avesse dato false generalità al Vicario o ai guardiani del comune
incaricati di sorvegliare sui danni dati; a chi avesse messo i termini in
qualche possedimento o luogo, senza licenza del padrone o della corte, "50 libre
di danari"; a chi avesse tentato di sconfinare, cioè di spostare i termini, di
un possedimento, il minimo a cui era tenuto ("manco de mancho") era di scavarlo
e di rimetterlo a posto ("riportarcelo"), secondo l'ordine del Vicario.
Pena di 100 libre di danari e fustigazione
per tutto il castello, per coloro che avessero osato cancellare o falsificare o
sottrarre documenti ufficiali dal libro della corte (cap. 48): la fuga dalla
prigione (cap. 48 bis) era punita con la multa di 10 soldi, se il carcerato era
detenuto per cause civili, o per danni dati; se invece era detenuto per cause
diverse, la pena l'avrebbe fissata il Vicario a suo giudizio ("stia in arbitrio
del Vicario"). Se poi, per fuggire, avesse rotto i ceppi, i ferri o le porte, la
multa era di 30 libre di denari, e chi lo avesse aiutato nella fuga avrebbe
dovuto scontare lui stesso la pena del fuggitivo [6].
Particolarmente severe erano le
disposizioni penali per chi osasse "produrre" dinanzi al Vicario, in caso di
lite, documenti falsi (50 libre per atti notarili, 25 per scritture private) o
falsi testimoni. In quest'ultimo caso, al reo che non avesse pagato entro otto
giorni la multa di 10 libre, veniva tagliata la mano destra e doveva riparare
subito il danno prodotto, più gli interessi.
Anche i testimoni che si erano prestati al
gioco venivano puniti con una multa di 50 libre ciascuno e con la perdita di
ogni credibilità nei futuri giudizi.
A Orte, la falsa testimonianza (1. III,
cap. 21), definita "iniquissimum scelus", veniva punita con maggiore durezza
nella multa pecuniaria, 100 libre di denari, e con una squalifica morale ancor
più pesante: se si dovesse prendere alla lettera il testo latino "punguntur pro
falsis testibus", dovremmo pensare che costoro venivano esposti e svergognati
sulla pubblica piazza con un segno infamante dipinto sulla faccia.
Una multa di 15 libre di danari era inferta
a chi turbasse ingiustamente (cap. 50) il pacifico possesso di una proprietà e
recasse molestia al proprietario che vi lavorava e vi raccoglieva i frutti. Così
pure, una multa di 5 libre, più 3 libre da versare alla "corte", per ogni capo
piccolo, e immediata restituzione al proprietario, era comminata ai ricettatori
del bestiame rubato e a chi "scientemente" lo comprasse, e nondimeno ("niente di
manco") dovevano risarcire anche il danno arrecato e l'interesse mancato.
La restituzione al padrone era però
condizionata alla prova reale ("dati li veri segni") di riconoscimento "che
quella cosa sia la sua" (cap. 51).
Di nove capitoli (dal 52 al 60) vengono
riportati soltanto gli enunciati dei titoli, ma non le norme. Peccato, perché
sarebbe stato interessante sapere, ad esempio, quali pene erano stabilite per
"chi calunniasse o percotesse gli ufficiali" (cap. 52) [7] per chi gettasse
sassi sopra i tetti" (cap. 53), per chi rompesse i palombari" (cap. 55), per
"chi cavasse la grascia" [8] fuori del lenimento" ( cap. 56), per chi "furasse
(rubasse) alcuna bestia" (cap. 57).
Due capitoli erano riservati ad argomenti
di grande rilevanza, proprio in rapporto alla civiltà del nostro tempo. Uno, il
58, riguardava i minori di 12 anni, l'altro, il 59, gli animali domestici.
Sarebbe stato interessante conoscere con quali disposizioni la comunità di
Bassanello proteggesse la crescita dei fanciulli o come salvaguardasse la vita
degli animali domestici. Anche sotto questo profilo, avremmo potuto valutare,
alla luce della mentalità moderna, il grado di civiltà raggiunto da una piccola
comunità rurale del sec. XVI.
Certamente ricca di umanità la disposizione
fissata nel cap. 60, con la quale si disponeva che "ad ognuno sia lecito di
scaldarsi".
Negli statuti di Orte non si faceva
distinzione fra coloro che avessero provocato risse o litigi: il potestà o il
giudice dovevano intervenire d'ufficio e applicare le pene pecuniarie stabilite
dalle norme.
Nello statuto di Bassanello si ha invece
una norma sorprendente (cap. 67): i membri di una famiglia che vivevano insieme
all'interno della loro casa ("che starrando a un pane e a un vino") potevano
menarsi e insultarsi liberamente senza esser "tenuti" ad alcuna pena: la stessa
libertà avevano i consanguinei (cioè coloro che avevano lo stesso capostipite) e
gli affini (il coniuge che acquistava parentela con i genitori dell'altro) fino
al terzo grado, a meno che non ci fosse stato un ferimento grave, o un omicidio
o una denuncia.
Nelle risse in pubblico era punito con una
multa di 50 soldi chi vi avesse partecipato con armi ("... ce corresse con
arma") e con una multa di 10 soldi, chi non si fosse allontanato su ordine del
Vicario o di un ufficiale (cap. 63). Ad ogni buon conto, per evitare occasione
di risse e di "maiore scandalo", all'inizio del suo mandato il Vicario doveva
prendere impegno con giuramento di costringere tutti coloro che fossero in lite
("che facessero questione") "ad dare bone et idonee sicurtà" di non "offenderse"
tra loro: chi si fosse rifiutato doveva pagare la multa di 20 soldi, e doveva
esser tenuto nel pozzo, fino a quanto non si fosse deciso.
Saggia la norma fissata nel cap. 67, in
difesa della dignità della persona umana.
È facile, purtroppo, colpire l'onore di un
individuo con allusioni, calunnie, insinuazioni non sostenute né seguite con
dati di fatto, cercando di sfuggire alle conseguenti responsabilità con
sottigliezze formali e lasciando al calunniato l'onere di dover dimostrare il
contrario.
Giustamente, dunque, la norma contenuta nel
cap. 67, riferisce che colui che "accusasse altra persona de alcuno maleficio di
parola iniuriosa" aveva l'obbligo della prova; altrimenti sarebbe stato
condannato a pagare "quella medesima pena che avrebbe dovuto pagare l'accusato,
se fosse provato".
Fissato questo principio, gli statuti
riconoscono a chiunque la facoltà di poter accusare, ma la negano, per
comprensibili motivi, ai figli di famiglia e alle figlie che sono sotto la
potestà del padre o del marito; ai ragazzi, che sono "sotto la cura del tutore,
e ai "garzoni", senza il permesso del padrone.
Se, infine, qualcuno, in un momento di
rabbia o per errore, avesse lanciato un'accusa della quale poi si fosse pentito
e volesse ritirarla, il Vicario era tenuto a concederglielo ("volemo per il
Vicario di Bassanello li sia concessa"). Se l'accusa però era grave (omicidio,
adulterio, sodomia, falsità, incendio, latrocinio, sacrilegio, ferimento con
frattura -de ossi-, cicatrici perpetue sul viso dell'ingiuriato, oppure per
offese fatte agli ufficiali), l'accusatore poteva, sì, ritirarla, ma doveva
pagare entro tre giorni una multa di 10 soldi "per la cassatura di detta
accusa".
Di particolare interesse sono i contenuti
del cap. 69 che precorrono, in certo modo, di quattro secoli norme che noi oggi
vantiamo come conquiste del nostro tempo.
La riduzione della pena per coloro che si
dichiarano pentiti del male commesso e spontaneamente collaborano con la
giustizia, non è di certo una novità: essa era già presente negli statuti di
Orte (1. III, cap. 7,8,9). limitata però solamente al reato di ingiuria a parole
nelle risse: bastava che il colpevole spontaneamente riconoscesse la propria
colpa, perché la pena gli venisse ridotta di un terzo.
Nello statuto di Bassanello, questo
principio non è più limitato ad un particolare reato, ma è esteso a qualsiasi "delicto
e maleficio" (cap. 69), e l'abbuono ammontava complessivamente a una metà della
pena, giacché una quarta parte gli veniva concessa per la confessione spontanea
e un'altra quarta parte se avesse fatto la pace con la persona offesa davanti al
Vicario e "scripta poi sul libro".
Il "terzo libro dei malefici" si chiude
(cap. 70) con la dichiarazione di non punibilità per atti commessi e parole
dette senza intenzione di recar offesa ("non per animo di iniurare") purché,
però, la persona ingiuriata giurasse di non essersi sentito offeso.
Vasanello - Viale Marconi
(Collezione Privata Giuseppe Purchiaroni)
[1] - Lando Leoncini: Fabrica
Ortana, vol. III, p. 65 "Anno 1200 in circa. Lo statuto di Orte fu fatto come
consta per una copia antiqua che io ho in mano tradutto da ser
Dinadoro Astorelli, Nini di Todi da
un capo XC di esso statuto et erano come sono advocati di Orte, Santo Ambrogio e
San Pancrazio, et era papa Innocentio III".
[2] - Gli statuti di Orte
riportano come ingiuriose queste parole: "patarino e figlio di patarino, figlio
di puttana, di ruffiana, traditore, ladro falsario". L'accenno ai patarini ci
rivela che il capitolo risale alla prima
stesura degli statuti, e ci conferma quanto dalla bolla di Niccolò III ci era
già noto: cioè, che nel corso della seconda metà del sec.
XIII era presente in Orte e nei paesi
vicini la setta dei patarini.
[3] - Negli statuti di Orte coloro
che avessero avuto l'ardire di commettere un simile delitto venivano condannati
al doppio della pena riservata ai percussori di qualunque altro
cittadino, e quindi venivano legati alla
catena delle colonne dei portici in Piazza di Santa Maria (l'anello è ancora
visibile) e lì lasciati alla pubblica esecrazione, per un
giorno e una notte.
A Bassanello, la pena veniva raddoppiata quando un delitto era stato commesso di
notte, o in chiesa, o sulla strada pubblica, o davanti al Vicario, in giorni di
festa o
quando l'offesa era stata fatta a persona
nobile o a un forestiero o agli ufficiali del comune.
[4] - Con questo termine "barconi"
o "varconi" si indicava un cumulo di covoni a base rettangolare, accatastati
sull' ara prima della battitura.
[5] - La libra, che stava alla
base del sistema monetario carolingio, era un'unità di misura di peso, del
valore di circa un terzo di chilogrammo; il valore di peso di una libra di
danari piccoli corrispondeva a 100
centesimi, cioè 20 soldi. Dalla forma francese "livre" derivò la parola italiana
"lìvira", che nel '200 diventerà "livra" (come è attestato da
Guittone d'Arezzo nel 1274) e quindi lira.
[6] - A Orte, in questi casi, il
Podestà stesso, che aveva l'obbligo di custodire le carceri, in caso di fuga di
un carcerato per furto, aveva l'obbligo di pagare la somma dovuta,
mentre il carceriere che non aveva ben
vigilato avrebbe dovuto scontare la pena.
[7] - A Orte le offese ai priori
(Statuti, 1. III, cap. 34) comportavano la pena applicata per l'offesa arrecata
a qualsiasi cittadino, moltipllcata però per quattro. La pena per
l'uccisione di alcuni di essi era la
stessa stabilita per l'uccisione del Vescovo e del Podestà: morte con ludibrio e
taglio della testa.
[8] - All'origine (sec. XV) questo
termine era un sostantivo neutro plurale di "grassium"=grasso, usato per
indicare specialmente il grasso di maiale o bue. In epoca
successiva, fino al sec. XVIII, venne usato
per indicare l'insieme delle cose necessarie sia per l'uomo che per le bestie:
(grano, olio, semetto, legumi, biade ccc..). Cfr. Gli
statuti della città di Orte libro IV, cap.
109 e 125.