Gli
Accordi con i Paesi Confinanti
sui "Danni Dati"
Che i rapporti con i paesi confinanti della
nostra zona, sopratutto se retti da regimi diversi, fossero tutt'altro che
tranquilli, ce ne danno conferma le "Riformanze" del comune di Orte negli anni
1449-1457.
Abbiamo già messo in rilievo
nell'introduzione quanta abbia contribuito a render difficile la pace tra gli
Ortani e i Bassanellesi il comportamento spregiudicato di donna Elena Orsini,
che non esitava a coprire con la sua autorità le continue rapine dei suoi
sgherri nel territorio ortano.
Ma ancor più grave era stato il
comportamento di Francesco Orsini, conte di Gallese, in un episodio che aveva
suscitato una pericolosa tensione con la comunità Ortana.
Contadino di Nicola Cardarelli, uno dei
personaggi più autorevoli del consiglio generale, era un grosso commerciante di
stoffe e aveva il suo lanificio e la sua tintoria nei sotterranei della Rocca,
scaricata nel 1431 alla morte di Martino V. Verso la fine del mese di marzo del
1450, gli sgherri del conte di Gallese avevano assalito nel porto di Baucca "una
nave carica di merce", che Contadino aveva preso a nolo, l'avevano saccheggiata
e avevano depredato l'equipaggio. La notizia aveva suscitato in Orte una grande
emozione, e il consiglio generale si riunì immediatamente per decidere sul da
farsi.
Angelo di Tito Giovannucci propose di
inviare due ambasciatori a Gallese per trattare la questione a favore di
Contadino che, si legge nel verbale, per l'attività che svolgeva a beneficio
della comunità, meritava "auxilium, consilium et favorem". Ma la trattativa
neppure incominciò. Il conte Orsini, con l'arroganza del prepotente, fece sapere
che non aveva niente da restituire perchè, diceva, il porto di Baucca
apparteneva a lui. Qualche giorno dopo, il 20 aprile, il papa Nicola V, forse
sollecitato dal card. Latino Orsini, camerlengo, cioè tesoriere dello stato
della Chiesa, e zio del conte, fece sapere che il porto era suo e non degli
Ortani. Invano, ser Antonio di Quirico propose di inviare un'ambasceria al Papa
per supplicarlo di far rispettare i diritti dei cittadini e le immunità del
comune. Invano, Angelo di Roberto consigliò di mandare a Roma due membri del
consiglio a chiedere pareri e aiuto ai cardinali più autorevoli e a far presente
al Papa come realmente stavano le cose.
Le "Riformanze" non ci dicono come poi la
questione sia stata risolta e se Contadino Cardarelli abbia recuperato la sua
merce. Sappiamo però, per certo, che il 24 gennaio 1452 il consiglio di credenza
si riunì in apposita seduta per decidere l'appalto della gabella del posto,
segno, dunque, che il leggittimo possesso di esso era tornato agli Ortani. Con
molta pazienza, dunque, la questione si era risolta in forma pacifica, sulla
base di un diritto riaffermato, difeso e finalmente riconosciuto.
Per risolvere casi del genere in maniera
più rapida e sbrigativa, sopratutto da parte di comunità governate da
signorotti, si faceva per lo più ricorso alla "rappresaglia", un istituto
giuridico di origine medievale, in base al quale, al singolo e alla comunità
depredata veniva riconosciuto il diritto di riprendersi con la forza, nei
confronti dei predatori, beni sufficenti a soddisfare il danno subito.
Purtroppo, era difficile che bastasse una rappresaglia a chiudere
definitivamente la questione. Di fatto, essa non faceva che aggravarle,
innescando una catena di reazioni sempre più spropositate e sempre più accanite,
che acuivano inevitabilmente i risentimenti e determinavano, tra le due
comunità, un atteggiamento permanente di rancore e di ostilità.
Un argine a questo sistema fu posto dallo
stato pontificio dopo la triste esperienze dei lanzichenecchi, quando il potere
centrale, opportunemente rinforzato, riservò esclusivamente alla propria
autorità la difesa degli interessi privati dei singoli cittadini. Il merito di
questa autentica conquiste di civiltà, cui dagli storici non è stato dato il
dovuto rilievo, è di Paolo III Farnese (1534-1549), un papa che, pur tra
incoerenza e deviazioni, diede un grande impulso al rinnovamento della Chiesa,
impegnando tutte le sue energie a convocare il Concilio di Trento e a ridare
alle funzioni del papato il primato degli interessi religiosi.
Il decreto sul divieto delle rappresaglie
fu da lui inviato a tutti i signorotti dello stato pontificio e da questi
trasmesso ai podestà delle singole comunità, con l'ordine di conservarlo in
perpetuo ("ciò metterete memoria in scriptis") "dove sene fossi per lo advenire
dei successori haverne norma". Giulio della Rovere lo trasmise al podestà di
Bassanello, Michelangelo Arconi da Narni con questa lettera: "Perché la Santità
di N.S. ha decretato non si possino commettere rappresaglie excepto che in Roma
per qual si sia causa, benché di ragion fussero, perciò vi ordiniamo per questo
non habbiate in alcun modo commettere et farle et ciò metterete memoria in
scriptis". La lettera porta la data del 2 dicembre senza l'indicazione
dell'anno, ma il fatto che nel libro dello statuto sia collocata fra le prime
aggiunte ci induce a ritenere che sia stata inviata non oltre il 1540.
Non è che, con questo, le incursioni nelle
proprietà oltre confine venissero di colpo a cessare. Se, a partire dal 1549, il
Principe dovette intervenire più volte con severità per limitare i danni dati ai
termini compresi entro confini, non dobbiamo certo pensare che venissero
rispettati i terreni appartenenti a proprietari d'altri comuni.
Non si ha, comunque, notizia che, dopo il
decreto di Paolo III, per regolare i conti nelle nostre zone, si sia fatto
ricorso ad azioni di rappresaglia, una cosa è certa che liti frequenti non mancarono
tra proprietari di terreni limitrofi; e forse, proprio nel tempo in cui furono
emanate le norme del 1549 rinnovate in forma assai più severe nel 1557, e poi
nel 1564 e infine nel 1569, si ritenne necessario regolare questa materia con
accordi e intese con le altre comunità.
È in questo quadro che si collocano gli
accordi allegati allo statuto, stipulati tra i legittimi rappresentati del
comune di Bassanello e le comunità limitrofe di Orte, di Gallese e più tardi con
quelle di Vignanello e di Soriano.
Un'attenta lettura del preambolo, purtroppo assai mutilo, dell'accordo con
Bassanello, ci rivela con sicurezza che l'iniziativa di concordare una medesima
linea di condotta, da tenere dalle varie comunità limitrofe, nei confronti di
coloro che arrecavano danni alle coltivazioni nei terreni posti al di là dei
rispettivi confini, fu promossa dalla "Magnifica Comunità di Orte, desiderosa",
come dice il testo, "di ben convivere con tutti li suoi convicini", nella
certezza che questa fosse anche "mente de convicini". Nella seduta comunale del
17 gennaio 1570, su proposta del consiglio generale, il Podestà e i Priori
affidarono a una commissione presieduta da Vespasiano Alberti l'incarico di
preparare una "medesima carta di pene" da sottoporre preliminarmente
all'approvazione dell'autorità centrale e, quindi, da firmare con tutte le
comunità confinanti".
Nello stesso giorno, la commissione propose
all'approvazione del Consiglio ("misso solenni et diligenti partito") un
documento in cui si decretava che i padroni delle bestie "di qualsivoglia sorte,
che fussero trovate nei territori convicini, et così quelle de convicini nel
nostro territorio", a recar danno "in herbe, grano, biade et simili et ancora in
giande (ghiande) et simili" avrebbero dovuto pagare per ciascuna bestia grossa 3
baiocchi; per ciascuna bestia "minuta" un baiocco; per ogni "fiocca" di bestie
minute 3 giuli.
I priori lo approvarono immediatamente, lo
inviarono a Roma per la conferma e, quindi, lo trasmisero alle comunità
confinanti. Per la comunità di Bassanello Giulio della Rovere lo firmò il 2
maggio, "desiderando di convivere pacifico, onesto et amichevole fra la comunità
di Orte e i nostri vassalli di Bassanello", escludendo però dall'accordo i danni
"manuali arrecati ai boschi ("li legni"), al fine di salvaguardare, come aveva
già predisposto l'anno prima, la legna necessaria alla produzione dei vasi, la
principale fonte d'introito per l'economia della comunità.
Fu a seguito di questa iniziativa, come
viene espressamente ricordato dal testo, che il 15 febbraio 1571 fu firmato a un
accordo simile, ma assai più articolato e minuzioso, tra le comunità di
Bassanello e di Gallese, ambedue sottoposte alla giurisdizione dello stesso
principe.
Il testo prende in esame i vari modi in cui
il danno poteva esser dato (se in vigne o ristretti o prati o frutteti), in
quali tempi (se con padrone o senza), e per ciascun caso si indicano le pene da
applicare. Di particolare rilievo è la norma riguardante i cani: se erano
trovati nel territorio con l'uncino al collo il padrone non doveva pagare
nessuna pena; ma se erano senza uncino e il padrone si rifiutava di pagare, il
danneggiato poteva uccidere "ditto cane" senza pena alcuna.
I capitoli furono stilati in doppia copia,
discussi e confermati da una commissione di sei priori (tre per parte), di cui
il testo riferisce i nomi: Vincenzo Compagni, Giovan Battista Pelici... Domenico
Arcarelli, Marco Antonio Lallo e Gregorio Rocchi. Il testo, conservato nella
comunità di Bassanello, fu firmato da Clemente di Giovanni di Gallese,
autenticato con il sigillo del comune dal cancelliere Andrea Sismondi e
sottoscritto dai tre priori di Bassanello Oliviero Feranidi, Bernardino Pandi e...
di Paolo. Il 15 febbraio 1571, al tempo del papa Sisto V, lo confermò con il suo
sigillo, dando ordine di osservarlo fedelmente, Giulio della Rovere. Il podestà
Claudio Cardarelli la firmò "mano propria".
I patti con Vignanello e con Soriano furono
sottoscritti quasi quarant' anni dopo, il primo nel 1609 e il secondo nel 1610,
al tempo di papa Paolo V.
Occorre rilevare che i capitoli con
Vignanello non furono concordati tra i rappresentanti delle due comunità e, poi,
approvati dai principi, ma furono il frutto di una intesa diretta tra Francesco
Colonna, principe di Palestrina e di Bassanello da una parte e da Francesco
Sforza Marescotti e sua moglie Ottavia Orsini dall'altra, con l'avvertimento
rivolto ai loro vassalli che quei capitoli dovevano essere sempre osservati
dalle due comunità "ad beneplacitum dei soprodetti signori".
Il patto è modellato, grosso modo, su
quello stipulato con Gallese: stesse distinzioni per quanto riguarda il bestiame
(bestie grosse, minute o fiocche) stesse colture (grani, ortaggi, legami e
ghiande) stessi luoghi (vigne, ristretti, "lochi reclusi" e prati), ma con
alcune significative varianti. Ad esempio, tra i danni vengono inclusi anche
quelli "dati" alla canapa, ai canneti, ai mucchi di paglia e di fieno; viene
introdotto, in via preliminare, il principio di garanzia, in base al quale
chiunque fosse stato trovato o "in libertà" o "a far danno" nel territorio
dell'uno o dell'altro comune, era obbligato di consegnare al guardiano "un
pegno", come atto di obbedienza e di riconoscimento, a dire subito il nome
proprio e del padrone delle bestie, e se avesse dato nomi falsi sarebbe stato
condannato, oltre alla pena per le bestie, anche "alla medesima pena per i
bugiardi". I priori non dovevano credere alle accuse dei guardiani, se questi
non mostravano "il pegno" ricevuto oppure se non riconducessero ("non remeassero")
le bestie sequestrate.
È, inoltre, da rilevare che in questo patto
viene introdotto un nuovo concetto di "fiocco" studiato, forse, per applicare ai
colpevoli una punizione più dura. Lo statuto di Bassanello e le aggiunte
susseguenti avevano sempre indicato con questo termine un insieme di 20 o al
massimo 25 bestie "minute". In questo documento si avverte invece esplicitamente
che "da venti bestie in su, se ben fussero ducento bestie, et più et meno" si
intendano sempre una fiocca. Forse, con questa formula, i due principi hanno
cercato di giustificare il notevole accrescimento della pena per una fiocca,
rispetto alla pena normalmente applicata in passato. Negli accordi con Orte, la
pena per una "fiocca" introdotta in un territorio altrui era di 3 giuli,
corrispondenti a 30 baiocchi. Qui, invece, la pena era di 4 carlini, e il
carlino equivaleva a un decimo di un ducato. Con l'allargamento del numero delle
bestie fino a 200 (un numero di capi che pochi proprietari possedevano) si
giustificava la multa di quattro carlini, anche se il gruppo di bestie era di
poco superiore al solito numero.
Il nuovo concetto di "fiocca" viene accolto
anche nell'accordo con Soriano: "la fiocca se intende da 25 bestie in su fino a
300", e la pena in questo caso non era di quattro carlini ma di un giulio, cioè
di 10 baiocchi. Anche qui, medesima, pur con qualche piccola variante, la
casistica presa in esame: così, i danni arrecati da una fiocca erano puniti non
più con un carlino ma con tre se "dati al tempo che vi fusse gianda (ghianda)",
oppure se, "nel tempo che si cresce la foglia dal primo dicembre al primo di
maggio", vi fossero poste a pascolare le capre ("le bestie caprigne").
Non si applicava, invece, alcuna pena se le
bestie, sia grosse che minute, erano "sott'anno", se cioè non avevano superato
un anno dalla nascita, non si faceva, infine, distinzione alcuna se il danno era
stato "dato" di giorno o di notte.
L'accordo, che reca la data del 26 marzo
1610, fu firmato per Bassanello dal podestà Giuseppe Cardarelli. Negli accordi
con Vignanello una apposita clausola escludeva dalla norma i danni dati alle
vigne e ai terreni di proprietà degli "Illustrissimi Signori" i quali si
riservavano pene "ad arbitrio loro".
Che in casi del genere gli "Illustrissimi
Signori" non ci andassero tanto per il sottile lo confermano due disposizioni
emanate da Giulio della Rovere l'undici febbraio 1559, qualche giorno prima
delle aggiunte con cui, per i danni dati ai beni di proprietà del principe nella
zona di Palazzolo, venivano applicate pene assai più severe di quelle stabilite
per i danni dati ai beni dei sudditi.