Le
Aggiunte e gli Allegati
L'elaborazione dello statuto, tra il 1527 e il 1533, rappresenta l'espressione
più alta e solenne della comune volontà, del Principe e della Comunità di
Bassanello, di stabilire rapporti umani, non più fondati sulla volontà assoluta
di una parte e sulla rassegnata sottomissione dell'altra, ma sul principio della
giustizia e sulla reciproca fiducia, nell'ambito di una limitata autonomia.
Le norme
fissate riguardavano esclusivamente l'ordinamento interno della vita cittadina.
I rapporti con le comunità limitrofe rimanevano, invece, di esclusiva competenza
della corte, cioè del principe del tempo.
I
comportamenti previsti dallo statuto non potevano, naturalmente, esaurire le
infinite possibilità dell'agire umano, nè i capitoli elaborati potevano rimanere
per sempre fissi e immutabili: anch'essi erano destinati a variare con il
variare delle circostanze e delle situazioni: di conseguenza, le norme fissate
avevano bisogno di essere via via aggiornate e adattate.
Nei liberi
comuni questo compito era riservato al consiglio generale e avveniva di norma
dopo un dibattito a più voci, intenso e vivace.
Nei comuni
feudali, invece, questa prerogativa apparteneva esclusivamente al Principe che,
prendendo atto delle mutate condizioni, interveniva per accentuare o per
modificare quelle norme che l'esperienza quotidiana dimostrava ormai non più
rispondenti alla realtà, e ordinava che la norma così modificata venisse
inserita nello statuto come parte integrante.
Nello
statuto di Bassanello due sono le forme di aggiornamento attuate: le "aggiunte"
e i "documenti allegati": le prime riguardavano aspetti particolari della vita
interna della comunità; gli altri sono documenti ufficiali, sottoscritti dal
Principe del tempo, per interventi di particolare rilievo, all'interno della
comunità, in determinate circostanze, oppure protocolli, cioè accordi fra due
comunità, sottoscritti dalle due parti contraenti, con i quali veniva regolata
particolarmente la materia dei "danni dati".
Le
"aggiunte" sono 26, 6 i documenti allegati; 4 i protocolli (due sottoscritti nel
1570 e nel 1571, e due nel 1609 e 1610); una notificazione del 1675 e un bando
del 1739.
Le
Aggiunte Inserite nello Statuto in Date Diverse.
Il primo documento aggiunto risale al 17
novembre 1533, forse al momento stesso in cui lo statuto veniva promulgato; è
firmato da Laura Orsini, con una postilla di Nicola della Rovere, suo marito.
Il testo, scritto in volgare, dispone che i
Vicari, "eletti cioè scelti allo officio di Bassanello" abbiano per "loro
salario" 20 carlini al mese, più le spettanze per le cause civili, dei malefici
e "delli straordinari", eccettuate quelle riservate alla corte ("per noy");
ordinava inoltre che il Vicario abiti ("si debia adstare") nel paese, in una
casa che, però, sia fuori della corte, che viva a spese proprie e si procuri in
proprio la carta per stilare i documenti processuali. [1]
Località "Palombara" e
"Quartiere Praticare" -
(Archivio Archeoclub Vasanello)
La postilla aggiunta dal principe Nicola,
in latino, reca un'interessante novità: egli non indica la persona incaricata
per sorvegliare e dirigere la comunità con il titolo di "Vicario" com'era stato
fissato dagli statutari, ma con quello di "Podestà" ("Potestas"), usato
normalmente per indicare la persona chiamata dal Consiglio generale a governare
un libero comune per un periodo di sei mesi.
La scelta di questo termine non è stata
casuale: con essa il principe metteva bene in chiaro che il "Vicario" non era un
suo sostituto, non agiva cioè a nome suo; era, invece, un comune funzionario che
portava per intero la responsabilità personale dei suoi atti, di cui, al termine
del mandato, avrebbe dovuto render conto. Tanto è vero che se "il Vicario" fosse
stato assente qualche giorno, pur con regolare licenza, non avrebbe avuto il
salario e se si fosse allontanato senza licenza, allora dopo solo tre giorni
poteva esser licenziato e sostituito "ad libitum nostri" cioè a suo arbitrio. In
questo modo il principe si premuniva dall'esser coinvolto in qualche "mala
iustitia" che il Vicario avesse eventualmente commesso. Questa posizione sarà
seguita da quasi tutti i principi che gli succederanno, i quali nelle lettere
usano anche la formula "Vicario ovvero Podestà".
Ce ne da conferma una lettera del 2
Dicembre di un anno compreso tra il 1534 e il 1549 (Statuto di Bassanello pag.
39) [2]. In essa Giulio della Rovere, figlio di Nicola, ordinava al "Podestà" di
Bassanello, Michelangelo Arconi da Narni, di pubblicare la disposizione emanata
dal Papa Paolo III di proibire qualsiasi rappresaglia [3] tra Comunità e
comunità "benché di ragion fussero" benché, cioè, ve ne fossero fondati motivi,
e di inserire la lettera nel "presente statuto" da "servarsi", cioè, da
conservare in perpetuo come parte integrante e non eliminabile.
Il testo della seconda aggiunta non reca
data, ma dovrebbe esser contemporanea alla prima. Tra gli incarichi fondamentali
che dovevano garantire l'ordinato svolgimento della vita amministrativa, gli
statutari non avevano previsto la presenza di un "cancelliere", (ib. pag. 38) di
un funzionario, cioè, corrispondente all'attuale segretario comunale, che aveva
il compito di redigere i verbali, registrare gli atti pubblici relativi alla
vita comunale, autenticarli e conservarli.
A colmare questa lacuna provvide il
Principe che riservava a sé il diritto di sceglierlo tra persone forestiere o
allo interno della stessa comunita ("della Terra"). Il testo, assai lacunoso non
ci permette di conoscere (anche se possiamo intuirlo) i compiti che gli venivano
assegnati e la paga che gli spettava. Comunque anche lui era avvertito che alla
fine dell'incarico sarebbe stato sottoposto a sindacato.
Due altri capitoli, anch'essi aggiunti dal
principe nell'atto stesso in cui promulgava lo statuto, riflettono la
preoccupazione diffusa nel medioevo in tutte le comunità, piccole e grandi, per
la salvaguardia dell' integrità e dell'autonomia del territorio su cui si
estendeva la propria giurisdizione e per impedire che una famiglia venisse a
trovarsi all'improvviso senza un mezzo di sussistenza.
Non era raro, infatti, che un proprietario
forestiero suscitasse qualche questione e, a sostegno delle proprie ragioni,
chiedesse l'intervento del comune di appartenenza, dando così origine a ripicche
e a contese che potevano sfociare facilmente a fatti d'arme.
Negli statuti di Orte questa eventualità è
ricordata esplicitamente per giustificare la proibizione a qualsiasi cittadino
ortano di vendere il terreno di sua proprietà a persone di altro comune [4].
Al principe Nicola, che prima di promulgare
lo statuto lo aveva attentamente esaminato, non era sfuggita questa lacuna e,
perciò, provvide lui stesso a colmarla e con apposito capitolo ("con la presente
nostra costituzione") ordinava che nessun abitante "di questo nostro Castello"
ardisse o presumesse vendere "cose stabili di quale si voglia sorte" ad alcun
forestiero, senza sua espressa licenza, pena la confisca delle "cose vendute" a
favore "della nostra corte".
Non solo, ma perché la famiglia, costretta
dalla necessità di vendere il proprio patrimonio, non venisse a trovarsi in
gravi difficoltà per vivere, dispose che un proprietario poteva vendere pure
"alcuni suoi beni stabili... ad alcun altro di detto loco", a patto però che "de
la cosa che vorrà vendere" si riservasse la terza parte. Se l'avesse venduta
senza sua "espressa licenza" la vendita sarebbe stata nulla, e quella terza
parte sarebbe stata anch'essa confiscata a beneficio della corte.
Nel possesso del Castello di Bassanello,
dopo gli Orsini si erano susseguite tre famiglie feudali: i della Rovere, i
Colonna e i Barberini.
Nel 1505 Laura Orsini, che appena
tredicenne si era unita in matrimonio con Nicola della Rovere, aveva portato in
dote i feudi di Cerqueto, ereditato dalla madre Giulia
Farnese [5], e i feudi di Bassanello e di Vignanello, ereditati dal padre, morto
cinque anni prima, durante il sonno, sotto l'improvviso crollo di un solaio nel
castello di Bassanello. Da questo matrimonio erano nati due figli: Giulio (1512)
e Elena (1514). Nel 1534, alla morte del padre, Giulio divenne signore di
Bassanello e in quello stesso anno Elena, cui era stato assegnato in dote il
feudo di Carbognano, sposò il principe Stefano Colonna. [6]
Nel 1577, poiché Giulio della Rovere era morto senza lasciare eredi, anche il
castello di Bassanello passò sotto la giurisdizione dei Colonna, i quali lo
conservarono fino al 1702, anno in cui un membro di questa famiglia, Giulio
Cesare, sposò Caterina, erede unica della casata Barberini.
Nel 1787 il loro figlio Urbano ereditò insieme con quelli della madre, i beni
del padre, tra i quali Bassanello e Carbognano; i suoi discendenti furono perciò
autorizzati a chiamarsi Barberini Colonna di Sciarra.
L'ultimo discendente, con cui si estinse questa famiglia alla fine dei sec. XIX,
fu Matteo Barberini di Sciarra. I terreni legati al feudo di Bassanello
divennero dapprima proprietà della Banca d'Italia, poi, dopo breve tempo,
passarono alla locale Università Agraria.
Il castello fu invece acquistato nel 1907 dal Marchese Mons.
Luigi Misciattelli
che lo riportò al primitivo splendore e lo lasciò in eredità ai suoi nipoti. Oggi
ne è proprietario la marchesa Elena Mocenigo Soranzo Misciattelli.
Nel corso della lunga signoria (1534-1577),
Giulio della Rovere intervenne più
volte per completare e adattare le norme statutarie alle non previste situazioni. Mentre negli statuti di Orte, nelle cause civili
e
straordinarie, là dove il caso non era stato considerato, si riconosceva al Podestà la facoltà di stabilire lui stesso, con la sua autorità, la pena da applicare, in base al principio "de similibus ad similia" (libro V,
cap.
32), lo statuto di Bassanello non aveva previsto questa eventualità cosicché, in
simili evenienze, il Vicario non aveva alcuna indicazione di come comportarsi.
Quando questa lacuna apparve manifesta e si riconobbe la necessità di stabilire
la certezza del diritto, il principe Giulio intervenne immediatamente, e con la sua prima aggiunta, (pag. 39) in cui specifica
chiaramente il motivo del suo intervento ("poiché in li capitoli del presente
statuto non si fa menzione"), statuisce e ordina che "nelle cose civili e
straordinarie" non previste, il Vicario poteva comandare ad ognuno come
comportarsi, sotto pena di 10 soldi per persona ed ogni volta, senza alcuna
diminuzione, e con la facoltà di duplicarla ogni volta che ripetesse la stessa
colpa.
Di rilevante interesse sociale e
amministrativo sono le aggiunte che riguardano i "salari e mercedi", le risse
nella piazza davanti al Palazzo del Principe, le norme per "i maestri di strada"
e la lunga serie delle imposizioni sui danni dati, pubblicata in epoche diverse.
La norma fissata in difesa dei salari di
lavoro e per gli interessi ("le mercedi") maturati per "danaro prestato" (pag.
39) apre uno spiraglio nel comportamento non sempre corretto dei datori di
lavoro o dei beneficiari dei prestiti di danaro, troppo spesso causa di
lamentele e di litigi. Per prevenire disordini e spiacevoli incidenti, il
principe riconosce agli operai, e a coloro che si erano fidati della parola
data, il diritto di citare i debitori anche "in li tempi feriali" (cioè nelle
giornate festive, fatta eccezione per le solennità "in honore di Dio" Natale,
Pasqua, Ascensione e Pentecoste), con un procedimento sommario, svolto cioè in
maniera rapida ed eccezionale, e li costringe a pagare "riavendo essi lavorato o
fatti lavorare".
Nessun accenno, invece, alle attività
artigianali. La ragione va, forse, ricercata nel fatto che la produzione dei
vasi e di altri utensili di terra cotta era stata promossa direttamente dal
Principe e sotto il suo controllo, e non rientrava, dunque, nella materia da
regolare con norme statutarie (pag. 48).
Quando "l'arte di far pignatte" abbia avuto
inizio non sappiamo, ma possiamo affermare con sicurezza che, una volta avviata,
era diventata subito una delle fonti di lavoro e di guadagno di cui la comunità
non poteva più fare a meno: senza di essa, dice l'aggiunta del 3 aprile 1569,
"l'homini di questa terra non potrebbero vivere".
Oggi, purtroppo, pastoie burocratiche e
sottigliezze fiscali hanno messo in ginocchio quest' arte, che fino a qualche
tempo fa, per l'iniziativa di alcuni artigiani, con una mostra annuale assai
apprezzata, faceva veramente onore a Bassanello.
Mi diceva Mario Pieri, che di quest'arte è
un cultore fine e appassionato, che per le due cotture, ognuna di due giorni, la
"biscottatura" a fuoco lento e la "vetriata" ("metriata" dicevano in dialetto) a
fuoco rapido, ci volevano dai cinquanta ai sessanta quintali di legna. Nello
stesso tempo, era stata avviata da piccoli imprenditori una più ampia produzione
di calce viva, per rispondere anche in questo campo non solo alla necessità
interne, ma anche alle richieste dei paesi vicini.
Per l'economia della comunità, anche questa
attività era certamente assai utile, ma aveva bisogno anch'essa della stessa
fonte di energia: però "in tal fornace", osservava il principe, "defluiscono sì
gran quantità di legna che durrando così, in breve tempo non si trovarebbero
legna per sustentare l'arte delle pignatte".
Un amico di Mario Pieri, Vincenzo Tretta,
mi riferiva di aver appreso dal nonno che per fare una fornace di calce viva
erano necessarie oltre 2500 fascine.
L' aggiunta del 13 febbraio 1565 (pag. 47)
riconosce che "l'arte di vasi che volgarmente dicesi delle pignatte" era
diventata la fonte primaria dell'economia cittadina, che gli imprenditori dei
paesi d'intorno non avevano tardato ad avviare anch'essi una piccola industria
delle pignatte, ma non essendo in grado di mettere sul mercato un prodotto
capace di far concorrenza, avevano chiamato da Bassanello, con allettanti
proposte, persone esperte nei segreti dell'arte.
L'allarme del Principe, sul piano economico
e su quello ecologico, era dunque, ben giustificato; applicando, perciò, il
principio che "quanto si accresceva il guadagno a quest'altri luoghi, tanto in
questo castello si diminuirebbe di sustanzie e di quotidiano emolumento" fece
bandire dal Castaldo Antonio Ceremontino da Spoleto un' ordinanza che proibiva a
qualunque cittadino di Bassanello di andar fuori del territorio "a lavorar vasi
e pignatte" senza il suo permesso scritto. E perché tutti capissero che egli non
scherzava, stabilì per i contravventori una multa "di ducati cento di carlini",
25 dei quali sarebbero stati assegnati in premio all'accusatore, insieme con la
promessa di tenerne segreto il nome.
Da questa "proibizione" erano esclusi
coloro che fossero stati chiamati a dirigere fabbriche a Gallese, Bomarzo e
Bassano di Orte, tre castelli che a quell'epoca erano sotto la giurisdizione
della famiglia Orsini. Quattro anni dopo, il 3 Aprile 1569, con un altro bando,
pròclamato dal medesimo castaldo, a salvaguardia della legna necessaria alla
produzione delle pignatte, il Principe concedeva di far calce in Bassanello per
le necessità interne, ma proibiva risolutamente di venderla "a forestiero" sotto
la pena di 10 scudi per ogni volta e per ogni soma, premiando anche questa volta
l'accusatore con la solita somma e con la solita riserva [7].
Dura e anche interessante è la disposizione
pubblicata (p. 40) con bando pubblico, per tre giorni consecutivi, dal Castaldo
Orlando, il 15 settembre 1563. Con essa il Principe, piuttosto seccato ("nessun
temerario ardisca o presuma") interviene energicamente a stroncare l'abitudine
di attaccar risse e questioni nella piazza, davanti "al palazzo e perfino in
cospetto di sua Signoria Illustrissima". I contravventori sarebbero stati
condannati a pagare, oltre alle pene previste per i singoli casi, nei capitoli
dal 34 al 38 del terzo libro, una multa di dieci scudi per ciascuno e per ogni
volta, "senza alcuna diminuzione". E perché non ci fossero dubbi su che cosa si
intendesse per "piazza", il principe chiarisce che "quale piazza se intenda" lo
spazio compreso "da la prima porta de Bassanello al Torrione" del castello verso
l'orto, fin alla chiesa di Santa Maria, e da lì "per insino" alla porticella
"dell'horto di sua Signoria verso la stalla et di lì sino ad casa" [8].
L'aggiunta sull'ufficio dei maestri di
strada (p. 40) emanata in un periodo di tempo in cui il principe Giulio, non
sappiamo per quale motivo, era assente da Roma, è una presa di posizione a
favore dei Viali nei confronti del Vicario Cesare Rossi di Vignanello, qui
indicato con il termine di Podestà.
La disposizione è datata il 21 luglio 1560
e reca la firma di Giulio Papi da Civita Castellana, cancelliere del Vicario,
per mandato di Giulio Cesare Colonna, principe di Palestrina e conte di
Carbognano, nipote, dunque, di Giulio della Rovere per parte della sorella
Elena. In essa non solo si riconfermano quanto era stato già fissato nello
statuto a proposito dei Viali (libro I, cap. 2 e libro IV, cap. 114), che cioè
ad essi doveva essere riconosciuta "ampia et piena autorità in le cose
concernenti il detto loro ufficio di comandare et imporre a loro arbitrio" ma si
fa ordine al Podestà di "prestargli aiuto et favore" perché venga attuato quanto
essi hanno stabilito.
Un'altra disposizione (pag. 41) emanata da
Giulio della Rovere nel castello di Bassanello ("in arce nostra Bassanelli")
l'undici dicembre 1545 ci rivela un caso singolare. Dal consiglio generale era
stato nominato, in quell'anno, chirurgo della comunità un individuo che era
stato "bandito", cioè scacciato dalla sua patria di origine. Da questo
"scandalo" erano sorte discussioni e risse, tanto più che fatti di questo genere
non era la prima volta che accadevano a Bassanello ("cum in terra nostra
Bassanelli sepius data fuerit occasio"). A giudizio del Principe, scelte di
questo genere dovevano essere stroncate alla radice. Sentito perciò il parere
favorevole degli ufficiali ("ratam et utilem sibi fore asserentibus") dispose
che "la predetta comunità e il consiglio e i suoi uomini" d'allora in poi, in
qualsiasi tempo, non avevano più facoltà di eleggere né detto chirurgo né altri,
senza sua espressa 'licenza, consenso, elezione e approvazione", pena duecento
scudi "ed altri a suo arbitrio", l'annullamento dell'elezione, l'immediata
sospensione dell'ufficio e privazione di qualsiasi stipendio. In questo caso, se
fosse entrato in carica per pochi giorni e lo stipendio gli appartenesse "de
iure", l'obbligo di pagarlo non sarebbe caduto sulla comunità, ma su coloro
stessi che lo avevano scelto.
Il principe ordinò, inoltre, che la
disposizione controfirmata da Angelo Sorci da Sutri suo uditore [9] e da
Giovanni Pulcini da Vìgnanello, "potestas de nostro", venisse inserita nel
volume degli statuti, non perché valesse in eterno ("non ut perpetuum statutum"),
ma perché durasse a suo beneplacito.
Qualche giorno dopo, il 15 dicembre, il
Principe emanò un'altra disposizione piuttosto dura nei confronti degli
ufficiali di Bassanello e dei priori di Carbognano (pag. 42). In essa non si fa
riferimento ad alcun fatto specifico, ma certamente doveva esser accaduto
qualcosa di grave se si vide costretto a prendere nei loro confronti un
provvedimento così severo. Nel testo si parla solo "iustis de causis" e si
afferma che "osservarlo in futuro con tutte le forze, sarebbe stato utile per il
pacifico governo del nostro stato e delle nostre terre". Con questa aggiunta, il
Principe proibiva, sotto la spropositata pena di 200 scudi, di scrivere lettere
munite con il sigillo del comune a qualsiasi persona, per qualsiasi pretesto ("quovis
praetextu"), di qualsiasi tenore, anche di raccomandazione ("etiam
commeditatione") in favore di chiunque, senza che il Podestà ne venisse
informato e non la registrasse, perciò, nell'apposito libro. Se poi la lettera
era indirizzata allo stesso principe, il podestà se ne doveva scrupolosamente
accertare.
Anche questa disposizione ("quod praeceptum"),
che recava la controfirma dell'uditore Angelo Sorci e del Podestà Giovanni
Pulcini doveva essere inserita "nel volume degli statuti".
Che il degrado morale della piccola
comunità, pochi anni dopo l'entrata in vigore dello statuto, fosse gravemente
aumentato, in seguito all'azione di fattori economici e sociali, lo dimostra la
serie di aggiunte ai capitoli dei danni dati, emanata il 13 marzo 1549 (pag. 48)
e, poi, via via riprese negli anni successivi. L'esperienza quotidiana aveva
dimostrato che le pene fissata nel libro IV non erano state sufficienti a
dissuadere "gli uomini della terra di Bassanello" dal recar danno "manualmente"
o con bestie "tanto grosse quanto minute", introdotte di notte nelle vigne e nei
"ristretti e sodi" altrui, anzi erano diventate, forse anche per effetto della
svalutazione economica, talmente "minime" che "nessuno aveva paura di
rischiare".
Il documento mette in luce una preoccupante
novità: per la prima volta la punizione è prevista non solo per le persone
maggiori di 14 anni, ma anche per ragazzi da dieci anni in su e perfino per i
ragazzi da dieci anni in giù, di cui maliziosamente si servivano i proprietari
di bestiame nella certezza della loro impunibilità. Il principe decise perciò di
intervenire risolutamente: la pena indicata nei cap. 71 e 72 dello statuto venne
elevata a 5 scudi per chi avesse danneggiato l'uva o "frutti di qual si voglia
sorte"; se a recar danno era stato un ragazzo da 10 a 14 anni la pena era
dimezzata; se era stato un fanciullo al di sotto di 10 anni, la pena era rimessa
"ad arbitrio del podestà". Se poi il colpevole non voleva o non era in grado di
pagare, doveva scegliere tra due soluzioni: o passare una giornata legata a una
catena, sulla piazza, esposto al ludibrio della gente, o dieci giorni di
prigione.
Alla prova dei fatti, neanche questa
aggiunta aveva ottenuto i risultati sperati, anzi era servita ad aggrovigliare
ancor più la situazione: da una parte, i guardiani notturni, che miravano a
beneficiare della percentuale promessa ai denunciatori, presentavano con sempre
maggior frequenza accuse che spesso erano false; dall'altra, chi era accusato
negava energicamente e si rifiutava di pagare.
Il 18 luglio 1557 furono fatte bandire, per i luoghi soliti e consueti di
Bassanello, dal castaldo pubblico Ascanio, tre aggiunte (pag. 49) per avvertire
che:
a) i danni arrecati "studiosamente" con
bestie ai grani e alle vigne, dall'otto di maggio fino al taglio del fieno,
cadevano sotto la stessa pena indicata nell'aggiunta del 1549 (pag. 48 addita
ecc.);
b) che la pena veniva estesa a chi, nello
stesso periodo di tempo, avesse danneggiato i prati;
e) che la denuncia dei guardiani, perché
venisse premiata, doveva esser convalidata da "un testimonio degno di fede".
Forse, per qualche tempo, questi
provvedimenti un qualche effetto lo avevano avuto, ma avevano suscitato anche
fortissime lamentele. Il principe si rese conto che i provvedimenti non potevano
essere applicati allo stesso modo per tutti i cittadini e che certi pesi
dovevano esser commisurati alle reali possibilità dei sudditi. Così nella
consapevolezza che le persone anziane ("li homini decrepiti") sono degne di
maggiore rispetto, riconobbe, con un provvedimento del 15 marzo 1559 (pag. 50),
che chiunque avesse superato i settanta anni doveva esser considerato "libero et
franco da ogni peso personale" e, se costretto a obblighi gravosi aveva il
diritto di "non obedire".
Le pene annesse a quelle azioni, fatte
bandire il 18 luglio 1557 (pag. 49), erano "troppo rigorose" in rapporto alla
miseria di chi le commetteva; il principe dovette prenderne atto e, con
provvedimento del 10 settembre 1559 (pag. 50), "attenta la povertà et le miserie
de li homini" le ridusse alla metà.
Tre disposizioni, infine, furono emanate,
forse, entro un breve lasso di tempo, coordinate fra di loro e firmate dal
principe, di cui però solo la terza reca la data dell'undici settembre 1560.
Con la prima si rammenta ai priori o
ufficiali, di volta in volta eletti, l'obbligo di ispezionare, entro otto giorni
dalla loro elezione, "con cura e diligenza", i confini del territorio comunale,
di controllare "i termini se sono stati rimossi" e far di tutto una dettagliata
relazione al podestà. La pena per i negligenti era di lire 10 "per ciaschuno",
da applicarsi una metà alla "camera", cioè all'ufficio amministrativo dei beni
del principe in Bassanello, e l'altra da dare come compenso a quelli che saranno
incaricati "a rivedere il lenimento".
Con la seconda si vuole colmare un vuoto
giuridico assai pericoloso. Nel passaggio dei poteri da un podestà all'altro era
ormai consuetudine che venisse sospesa ogni inquisizione sui danni dati, e
questo fatto aveva determinato "evidente materia a dar danni". Il principe volle
stroncare questo abuso e autorizzò il Podestà uscente a "fare inquisizione" fino
"appresso il nuovo Podestà non obstante qual si voglia consuetudine per li tempi
passati observata in contrario".
Con la terza si ribadisce il divieto già
dato dagli statutari di vendere "né in tutto né in parte cose stabili", quindi
né terreni né casali posti ai confini "fino a un quarto di miglio delli
circontorni territori".
Quanto la disposizione fosse ritenuta
importante lo indica la pena annessa: oltre alla nullità dell'atto "ipso iure",
coloro che avessero disatteso la norma, dovevano versare alla "camera" del
Principe il prezzo intero della vendita.
In quegli stessi anni venne ad emergere
all'interno della comunità di Bassanello un danno di carattere morale ben più
grave di quello economico: infatti, se "i danni dati" colpivano la proprietà,
l'adulterio veniva a sgretolare un istituto assai più importante, e cioè la
compagine familiare.
Il principe cercò di porre un riparo anche
a questa preoccupazione, aggiornando il cap. 43 dello statuto. Questo prevedeva
che la pena di 50 libre doveva esser pagata solamente dalla parte maschile; con
l'aggiunta del 14 giugno 1562 (pag. 47) la pena venne elevata a scudi 25 da
pagarsi da ambedue le parti, e questo, precisa il principe, allo scopo di
dissuadere dal commettere questo "delicto", nonostante lo statuto. [10]
Sulla questione dei danni, tutto rimase,
"grosso modo", come prima, con l'aggravante però che furono presi di mira anche
i piccoli appezzamenti.
Invano l'otto di aprile del 1564 (pag. 44)
il principe annullava le pene irrisorie di soldi 5 o di soldi 2, previste nei
capitoli 90 e 91 dello statuto e ordinava che i danni arrecati ai "ristretti e
sodi di vigne" di minor capacità di due "meze" [11] dovevano esser puniti con le
stesse pene fissate per i danni arrecati alle vigne, e che per i danni dati a
"sodi e ristretti" di maggior capacità, si doveva applicare la stessa pena
stabilita per i danni arrecati a un casale (cap. 90). Le cose però non mutarono.
Cinque anni dopo, il 28 marzo 1569, il Principe decise di intervenire di nuovo
(pag. 44, 45, 46) con alcune addizione allo statuto ancor più gravi e pesanti, e
le fece pubblicare con apposito bando "con voce alta e ben comprensibile,
nell'ora solita e consueta", dal Castaldo Antonio Ceramontino.
Nella premessa, egli lamentava che nella
terra di Bassanello "giornalmente" si facevano innumerevoli danni, "per esser
accresciuta e augumentata la malitia et malignità dell'huomo" che "non si cura
delle piccole et deboli pene statutarie". Per rincuorare gli animi delle persone
oneste e per punire "li dannificanti", egli si era visto costretto ad aumentare
le pene e a farle osservare "con ferma deliberazione", e si richiamava ai cap.
92 e 138, là dove molto saggiamente, gli statutari avevano stabilito, sotto la
pena di 10 soldi, per ogni famiglia di Bassanello l'obbligo "di fare l'orto",
affinchè a nessuno mancasse il minimo indispensabile per vivere, e nessuno
avesse perciò motivo di andare a rubare e a danneggiare gli orti altrui. Da
questo obbligo erano esentati solamente coloro che "nella terra" non avevano "horto"
o terreni disponibili "nel distretto delle vigne".
In questa prospettiva, la possibilità che
qualcuno andasse a rubare o a recar danno agli orti altrui non era stata presa
neppure in considerazione. Ma da allora erano passati oltre trenta anni e
giustamente il Principe lamentava che "la malizia et la malignità" degli uomini
era "accresciuta et augumentata". Bisognava perciò porre un freno a tanto male,
e richiamando in vigore quel capitolo ordinò anzitutto ai "negligenti" di fare
l'orto entro 15 giorni, alla pena di mezzo scudo, a meno che veramente uno non
avesse lo spazio per farlo "nella terra o nel distretto della vigna".
Aumentò poi le pena fino a 5 scudi o a 2
tratti di corda "da darglise in pubblico ad arbitrio di Sua Signoria", per chi
avesse fatto danno o fosse stato trovato entro l'orto, senza licenza del
padrone. Per quelli che avessero fatto danni con bestie grosse portò la pena a 2
carlini; con bestie piccole a 5 soldi per ogni bestia; la pena saliva a 30
carlini se il danno fosse stato arrecato con "una fiocca", a un carlino se
avesse arrecato con una bestia porcina, a due carlini se con una fiocca.
Aumentò anche le pene per i danni "dati"
con bestiame ai grani e alle biade, alle vigne con i ristretti, e ai canneti.
Per chi lo avesse fatto "studiosamente" cioè di proposito, solo per il gusto di
far dispetto, la pena era o di 2 tratti di corda o di 10 scudi; e se a recar
danno era un ragazzo minore di 14 anni la pena era ridotta delle metà, come se
il danno fosse stato dato in un casale o in ristretti non compresi nella vigne.
Il danno poteva esser estinto anche con un patteggiamento immediato tra padrone
e colpevole, in base al principio "tanto di pena tanto di emenda". Infine, se il
pastore che aveva arrecato danno era un forestiero era tenuto a pagare il
padrone del bestiame un acconto del salario, e se accampasse la scusa di averlo
già pagato doveva mostrare la ricevuta e, comunque, pagare lo stesso.
Via Ortana e Ingresso al
Paese