LIBRO
QUARTO
Delli
Straordinari
Nei 35 capitoli del libro V vengono
esaminati casi non usuali, passibili di punizione o meritevoli di
incoraggiamento, che si presentano nella vita della comunità cittadina nelle
forme e nelle circostanze più diverse. Per questo le norme non sono disposte
secondo un criterio unico e i capitoli che trattano la stessa materia non sono
raggruppati insieme in uno svolgimento ordinato e coerente. Si passa dalla
regolamentazione del piccolo commercio (cap. 105 e altri) alla proibizione di
lasciar andare i porci "per lo castello" (cap. 109); dal divieto di "gettar
immondizia" nelle piazze o nelle strade (cap. 111) al pignoramento dei mobili in
casa (cap. 112); da un piccolo abbozzo di regolamento edilizio (cap. 113) alla
tutela delle fonti (cap. 116); dal dovere della solidarietà cittadina in caso di
pubblica calamità (cap. 125) al sostegno per chi volesse "ponere vigne in alcuna
sua possessione" (cap. 131).
Che l'economia di Bassanello fosse quasi
per intero fondata sulla produzione del vino e sulla fabbrica di vasi di coccio,
trova nello statuto una esauriente conferma: si esortano infatti, i tavernieri a
fare il loro mestiere con onestà, i contadini a coltivare con diligenza la vite
e a piantarla nel territorio di Bassanello.
Ad assicurare la genuinità del vino e a
difendere il buon nome della comunità, gli statutari riservano ben quattro
capitoli. È ovvio che a fare il buon vino occorre la buona uva e che, a parte la
qualità, l'uva è buona quando è veramente matura. Per dare l'avvio alla
vendemmia veniva perciò convocato un apposito consiglio dei capi di famiglia
(cap. 127) per stabilire la data di inizio, che comunque non poteva mai cadere
prima della festa dell'Arcangelo San Raffaele (29 Settembre). Per alcune vigne,
la cui maturazione era arretrata, il consiglio si riservava la facoltà di
spostare il giorno stabilito. In ogni caso, il contadino e il proprietario che
si fossero permessi di cogliere l'uva di propria iniziativa, erano puniti con
una multa di 10 libre.
Anche negli statuti di Orte è riportata una
norma simile (libro IV, cap. 209), solo che il permesso di mietere e di
vendemmiare doveva venire dal padrone. E se ne spiega la ragione. Qui la norma
era finalizzata a tutelare gli interessi del padrone, a Bassanello, invece,
mirava ad assicurare la validità del prodotto.
Collegata con questo capitolo è la norma
fissata nel cap. 134 che tutelava il diritto del Taverniere ad esser pagato.
Accadeva con una certa frequenza che qualche forestiero di passaggio o anche
qualche persona del castello "magnasse e bevesse in qualche taverna o vero
hostaria" e se ne andasse senza aver pagato, oppure che sollevasse qualche
questione sul prezzo. Il taverniere doveva denunciare il fatto entro tre giorni
e il Vicario doveva credere al suo giuramento e costringere l'avventore a
pagare, oltre al dovuto per la consumazione, una pena di 10 soldi.
Per garantire l'onesto commercio del vino e
dell'olio, gli statutari stabiliscono anzitutto che tavernieri e venditori di
olio dovevano usare, come misura di capacità, il mezzo boccale, la foglietta e
il terzo [1], e che i recipienti indicati dovevano essere conformi a quelli
depositati in comune e muniti dal Vicario, come marchio di garanzia, del sigillo
del comune. Lo stesso valeva per i venditori di panno di lana o di lino: il
passetto e la canna dovevano portare il sigillo del comune [2]. Il
contravventore doveva pagare una multa di 20 soldi per ogni vendita effettuata,
con il diritto della quarta a chi l'aveva denunciato (cap. 105, 106, 107).
Se a Bassanello era assai fiorente la
produzione di vino, non altrettanto lo era la produzione dell'insieme dei
prodotti alimentari (grano, olio, polli, uova, verdure), complessivamente
indicati, fin dal sec. XIV a tutto il '700, con il nome di "grascia". Stando a
quanto stabilisce il cap. 108, questi prodotti venivano importati a Bassanello
da persone "forestiere": "È andato forestiero", si diceva nelle nostre parti di
un contadino che, di buon mattino, con il "carretto" tirato da un asino, si
recava a vendere i prodotti del proprio campo in un paese vicino, e "forestieri"
venivano chiamati sulla piazza in cui facevano mercato. Ora, poteva accadere che
quando la merce era ricercata e non prodotta nel Castello, qualche rivenditore
acquistasse o facesse acquistare ("comparare") all'ingrosso tutta la "grascia"
esposta sulla piazza, per rivenderla poi, in proprio, a prezzi maggiorati. Con
il cap. 108 gli statutari vogliono impedire, con una pena di 30 soldi, che un
piccolo onesto commercio tra poveri si trasformasse, per alcuni rivenditori
locali in una occasione di ingiusto profitto. E perciò "stabilirono et
ordinarono" che il "forestiero", venuto sulla piazza del Comune, doveva vendere
"al minuto", dall'ora dell'arrivo fino al tramonto ("da l'ora che venisse per
sino al vespero") a chiunque volesse "comparare" la merce esposta "in cose da
mangiare et in un altre cose", e solo dopo tre giorni poteva venderla ali'
ingrosso.
La cura dell'ambiente non è, come si
vorrebbe far credere, una novità e un vanto del nostro tempo. Nello statuto di
Bassanello vengono ad esso dedicati, segno di grande civiltà, ben quattro
capitoli. Gli statutari ordinano, senza mezzi termini, che "nisciuna persona
lassi andare porci per il castello di Bassanello" a meno che non si portassero
"al macello o per ammazzarli in casa" (cap. 109); che "nulla persona possa "incigliare"
o vero infragnere lino o canapa" nelle strade pubbliche, dinanzi alla porta di
casa (cap.110); che a nessuno è permesso gettare ("iactar") "alcuna bruttura né
mondezza" in qualsiasi luogo "entro le mura del castello" né in piazza né nelle
strade pubbliche né in quelle vicinali (cap.111): chiunque contravvenisse a
queste disposizioni, oltre a pagar la pena di 5 soldi, sarebbe stato obbligato a
raccogliere di nuovo e a trasportarle subito negli scarichi stabiliti. Anche la
"mondezza", ammucchiata a seguito della pulizia di una stalla o altro luogo
simile, doveva esser portata subito fuori le mura" alli lochi deputati".
La pulizia generale del paese, come in
tutti i comuni medievali, era affidata al senso di responsabilità dei cittadini
stessi. Lo statuto di Bassanello, nello stesso cap. 111, raccomanda a ciascuno
di spazzare davanti la porta di casa ("nanti all'uscio de la casa sua") il
sabato sera e in tutte le vigilie delle feste comandate, e di gettare la
spazzatura raccolta nei luoghi a ciò stabiliti, fuori la porta delle mura.
E perché nessuno potesse scusarsi di
essersene dimenticato o di non saper che giorno fosse, il Vicario aveva
l'obbligo di farlo ricordare a tutti, la sera stessa, con un apposito bando. I
contravventori erano puniti con una multa di 5 soldi. Anche chi tardava a
rimuovere entro tre giorni mucchi di, sassi o di pietra ("pitrature"), deposti a
seguito di lavori fuori dell'uscio di casa., veniva punito con una multa di 10
soldi per ogni giorno di ritardo. Chi poi osava buttar "addosso" ad altre
persone "alcuna bruttura" era condannato a una pena di 20 soldi. Anche gli
operai che, lavorando su una via, ne sconvolgessero l'assetto o la sporcassero
in qualche modo, avevano l'obbligo di "nectarla" a proprie spese e di "refarla"
come era prima, entro un termine stabilito dalla corte. Comunque, avrebbe dovuto
pagare, per questo, una multa di 5 libre.
Un'altra disposizione aggiunsero, infine,
gli statutari in materia di igiene e di difesa dell'ambiente e del decoro della
città.
Alcune famiglie avevano la fortuna di avere
la "sciacquatoio" in casa e lo facevano scolare sulla strada. Naturalmente,
questo inconveniente "faceva fastidio" ai passanti e "impedimento" ai vicini.
Con il cap. 118 essi, perciò, ammoniscono
perentoriamente: "chi avesse sciacquatoro, lo acconci", volendo dire che, averlo
era certamente una gran comodità, ma se uno voleva mantenerselo, doveva trovare
il modo migliore per usarlo, senza arrecar danno o fastidio ad alcuno, e se
entro tre giorni dopo l'ordine del Vicario il proprietario non avesse provveduto
a sistemarlo convenientemente avrebbe dovuto pagare una pena severa: lire 5 per
ogni volta che facesse scolare l'acqua sulla strada ("che ciasche volta
facesse").
Un'ultima importante disposizione (cap.
113), presenta caratteri di sorprendente novità e può configurarsi come un primo
abbozzo di regolamento edilizio: Qualsiasi cittadino, prima di incominciare a
costruire lungo una strada o un luogo del comune, era obbligato a interpellare
il parere dei "veditori" e del Vicario ("debino recerchare li veditori del
comune et il Vicario") e ottenere l'assenso di questo, perché non accadesse che
la costruzione recasse danno a qualcuno. In questo campo, comunque, la decisione
prima spettava esclusivamente ai viali ("et quello li serra concesso per li
viali se abtenga"). Il Vicario non aveva facoltà di negare l'assenso di
costruire entro i limiti da loro giudicati convenienti. Ma se qualcuno avesse
osato cominciare a costruire contro il parere contrario del Vicario e dei
veditori sarebbe stato condannato a pagare una pena di "due libre" e a demolire
immediatamente ("a guastare") quello che "havesse incominciato".
Alle fonti, considerate dagli statutari un
bene pubblico essenziale per la comunità in qualunque luogo del territorio si
trovassero, vengono riservati tre capitoli: il primo (cap. 115) per assicurare a
tutti il diritto "di andare alla fontana per acqua", tanto di giorno che di
notte, anche passando, senza però recar danno, attraverso terreni altrui; il
secondo (cap. 116), per punire con una multa di 40 soldi chi "la guastasse o vi
facesse alcuna cosa brucia"; il terzo (cap. 117) per ricordare agli ufficiali
che era loro dovere vigilare per farle mantenere in buona efficienza e per farle
riparare, ove fossero "guastate", tutte, ovunque si trovassero, ma
particolarmente quella sotto la Porticella delle Mura. E questo loro dovere era
considerato tanto importante che se fossero stati negligenti "caschino in pena
de soldi venti ciascuno".
Nei capitoli dal 120 al 123 vengono fissate
le norme che regolano il comportamento di alcune categorie di operatori
economici, indispensabili per la vita della comunità: "macellari, molinari,
fornare e muratori". Per ognuna di esse vengono fissate alcune norme
fondamentali. Nell'ampio capitolo 120, che ha per fine la salvaguardia
dell'acquirente dalle frodi dei macellari, gli statutari prendono in esame una
serie di situazioni che contrastano con la correttezza dei rapporti tra il
commerciante e i suoi clienti, e per ognuna indicano il rimedio e fissano una
pena. Così, perché non ci fossero frodi sul peso, stabilirono che le statere, le
bilance e "altri pesi", prima di essere usate, dovevano essere "adiustate" e
rese conformi (alla pena di 20 soldi) a quelli depositati nel comune e segnati
con il sigillo ("con el signio") del Vicario e degli ufficiali.
Che se i commercianti le avessero usate
senza tenerle "iuste et in quel modo che fosse stato ordinato" avrebbero pagato
una pena di 10 libre per ogni volta. Il prezzo della carne, imposto secondo le
norme statutarie nell'atto stesso in cui veniva acquistata la bestia al macello,
non poteva esser più modificato: chi lo faceva doveva pagare una multa di 2
soldi.
Chi avesse venduto carne con bilance false
era condannato a integrare il peso ("sia tenuto dargli quello più che mancasse")
e a pagare una multa di 10 soldi. Pene severe erano stabilite per chi avesse
venduto un tipo di carne per un altro: "pecora per "castrato", "scrofa" per
"porco maschio"; "capre" per "castrabecco", "carne morticina o infetta o
gonfiata o asciuttata" per "carne buona". In questi casi la multa variava da 5
soldi a 10 libre. Solo la carne "morticina" [3] poteva essere venduta "a
quantità" senza peso, non però al macello, ma solo al di qua della parte delle
mura.
A riguardo dei molinari, le norme prendono
in considerazione non la falsificazione dei pesi ma lo scambio dei prodotti
(cap. 121): mescolare ("guastare") il grano o la biada portati a macinare con
altro grano o farina, comportava una multa di 40 soldi. Il prezzo di molitura,
per soma o per qualsiasi altra misura, doveva esser "conforme a quanto è stato
consueto per il passato", e chi avesse preteso una somma maggiore doveva
restituire il mal tolto e pagare la pena di 5 libre.
Vasanello dall'Alto -
(Archivio Archeoclub Vasanello)
Ispirati a principi di buon senso sono i
capitoli 122 e 123.
Nel primo, gli statutari ricordano alle
fornare che era loro dovere cuocere, al prezzo solito per tutti, il pane a
chiunque lo chiedesse, ma dovevano contentarsi di accettare quanto era disposto
a dar loro ("lo paghino da loro") chi avesse avuto il pane o troppo o poco
cotto.
Nel secondo, ricordano ai muratori il
principio dell'etica professionale e li avvertono a fare "bon muro et bon
fondamento", perché se entro un anno, da quando il muro era stato costruito,
"alcuna parte ne cadesse o se spiccasse" dovevano rifarlo a loro spese.
Il cap. 125 richiama tutti gli abitanti del
castello al dovere della solidarietà cittadina: al suono della campana "a
martello" o all'arrivo "della voce di un incendio", "quam primum" dice la norma
cioè quanto prima possibile, senza alcun indugio, ogni persona "se adacta al
pòssere spegnere el foco" doveva correre alla casa in pericolo e adoprarsi a "stegnerlo"
con acqua e "altri istrumenti".
Solo se uno affermava con giuramento "non
lo avere inteso", poteva essere esentato da una pena di 10 soldi.
Proibizione assoluta di giocare con dadi o
a carte, sia dentro che fuori casa (cap. 125); si fa, però, volentieri eccezione
("volerne sia lecito iocare") nelle feste di Natale, a cominciare dalla vigilia
a tutta l'ottava. In questi giorni si potevano mettere in gioco, con premio,
"cose da mangiare", a patto però che il loro valore non superasse il prezzo di
un carlino per ogni giocata.
In genere, fatta eccezione per le
domeniche, le feste comandate venivano fatte annunciare per bando del Vicario
(cap. 128) la sera della vigilia, con l'avvertenza che a tutti era proibito
lavorare o far lavorare, alla pena di 10 soldi.
Nella festa della Madonna "nel mese di
Agosto" e in quella di San Lanno, il camerlengo doveva fare "un cilio" in loro
onore. Per sapere di che cosa si trattasse, abbiamo chiesto lumi ad dott.
Attilio Carosi, appassionato cultore delle antiche tradizioni viterbesi, il
quale, sulla base di un'affermazione del grammatico Papias del sec. XII,
riportata dal Du Conge nel suo dizionario (vol. 2 pag. 15), ritiene che si
tratti di un vaso d'argento lavorato con un apposito scalpello [4]. Poiché
un'opera di tal fatta richiedeva una spesa piuttosto rilevante, gli statutari
obbligavano a dare un contributo di 2 soldi coloro che lavoravano la campagna
con un paio di buoi, e coloro che mettevano opera a giornata con zappe, bidenti
e vanghe, un contributo di 12 denari per ogni operaio.
Se in questo libro dello statuto numerose
sono le norme che riguardano i campi, gli orti, le vigne, il bestiame e i
prodotti agricoli. un solo capitolo (cap. 137) è dedicato a risolvere, con molto
equilibrio, un caso di servitù: in un fabbricato di più piani, all'inquilino del
piano di sotto, gli statutari riconoscono il diritto di "far passare" il proprio
camino attraverso le stanze dell'inquilino del piano di sopra, ma riconoscono a
questi il diritto al risarcimento con una somma di danaro, da stabilire per
stima "da due maestri de muro", e di pretendere che la canna fumaria passasse
per una parte della casa che fosse "mancho dannosa", che arrecasse cioè meno
danno al fabbricato e meno fastidio al proprietario.
Scarna e piuttosto sbrigativa è la
disposizione fissata a proposito della sepoltura di un cadavere in una chiesa.
Negli statuti di Orte (libro IV, cap. 93) erano considerate non rispondenti al
decoro della città scene di lamentazioni clamorose che i parenti del defunto, e
particolarmente le donne, facevano sempre fuori dalla porta di casa, tanto che
il Vicario era tenuto a inviare sul posto un notaio con la facoltà di infliggere
una pena a suo arbitrio. Nello statuto di Bassanello nessuna allusione a
pubbliche manifestazioni di dolore. La norma, assai fredda e stringata,
contenuta nel cap. 129, dispone seccamente che i parenti più stretti del morto
"siano tenuti" a far preparare ("ad conciare") in chiesa entro cinque giorni la
sepoltura "in modo che non se senti la puza". Nient'altro.
Curioso è, invece, il caso giuridico
prospettato nel cap. 139 su una consuetudine che certamente era stata causa di
discussioni all'interno della famiglia. L'accenno esplicito, "non ostante
alchuna consuetudine per il passato", che gli statutari "penitus", cioè
totalmente, annullano, non lascia dubbi in proposito. La norma dispone che se
una donna messa incinta entro l'anno in cui si era sposata chiedeva di andare a
partorire in casa del padre o dei fratelli carnali, questi erano tenuti ad
accoglierla ("ad receptarla") e a mantenerla per un mese dopo il parto. Se
decideva, invece, di partorire in casa del marito, anche se invitata ad andare
dai suoi, non aveva più diritto di domandare, per conto del parto" né alimenti
né cosa alcuna".
Il cap. 124 ci apre uno spiraglio sulla
vita civile interna della comunità. Per circostanze importanti, in cui era
necessario decidere su cose di interesse comune non contemplate dallo statuto,
gli statutari rimettono la soluzione non già alla iniziativa del Vicario o degli
ufficiali, ma alla volontà del popolo convocato in un apposito consiglio,
indetto con un bando ("bannito") dal Castaldo.
Il consiglio si svolgeva "nei luoghi soliti
et consueti", non sempre, dunque, nella stessa piazza. Erano obbligati a
parteciparvi ("debia andarce") "un homo per foco", cioè un rappresentante per
famiglia, e nessuno era autorizzato, pena una multa di 5 soldi, ad
allontanarsene prima che fosse terminato. Il consiglio decideva a maggioranza,
ed era "generale" cioè valido, se vi avevano partecipato ("et bastano") almeno
sessanta uomini, e tutti gli abitanti del luogo erano tenuti ad osservare quanto
in esso era stato deciso, "come se ce fosse tutto el popolo".
[1]
- Il boccale era un vaso panciuto di terra cotta, con manico a beccuccio. Quello
usato come misura di capacità per la vendita del vino variava secondo il tempo e
le regioni.
Nelle nostre parti esso conteneva
abitualmente 4 fogliette cioè litri 1,80. Il mezzo boccale misurava, dunque,
litri 0,90. Popolarmente, sempre nelle nostre terre, la
foglietta era sinonimo di mezzo litro e il
quarto corrispondeva a 1. 0,25.
[2]
- II valore del passetto, antica unità di misura di lunghezza, era compreso fra
i due e i tre metri, e variava a seconda delle città e dei paesi. L espressione
usata nello
statuto di Bassanello "con passetto o vero
canna" lascia intendere che i due termini erano equivalenti e indicavano una
misura corrispondente a metri 2,224.
[3]
- Con questo termine si indicava la carne di una bestia scapicollata o morta non
naturalmente.
[4]
- "Caelio, cilio, scalpellum; coelatum, insculptum, quod est ferramenti genus...
unde argentarli vel sculptores operantur. A quo celata vasa dicimus, qui vulgo
cilio dicitur".
(Caelio, cilio, scalpello: opera scolpita
con il cesello, che è un arnese di ferro... con cui lavorano gli orefici e gli
scultori... Per questo noi diciamo vasi cesellati, e questo
abitualmente si dice "cilio").