Aspetti
Della Vita del Casalante
Il Lavoro - Il Divertimento - La
Religiosità - Il Costume - Personaggi Tipici
Il Vecchio Aratro
Il Lavoro
Pace Raniero, di anni 76, insieme a sua
moglie Libriani Gioconda, di anni 70, abitavano nel casale del Cunicchio che è situato su
di un cucuzzolo.
Egli ci racconta che nel terreno del suo casale l'aratura veniva effettuata a mano:
l'aratro era trainato
da un bue o un asino: Il bue era bianco pezzato di marrone, mentre l'asino era grigio
scuro.
L'aratro era di forma molto semplice; aveva due manici, che si congiungevano dietro al
vomere, da quest'ultimo partiva un'asta che sorreggeva una piccola ruota, su questa asta
c'erano attaccate due catene che congiungevano l'aratro al bue. La famiglia Pace non era
ricchissima, infatti aveva pochi appezzamenti di terra sparsi qua e là in varie parti del paese, lontani qualche chilometro
dal casale.<
Quindi per raggiungere la località la famiglia doveva alzarsi quando era ancora buio per
iniziare il lavoro all'alba. Mentre Pace Raniero imbracava il bue, sua moglie preparava un ricco e
sostanzioso cestino
di cibo e vino per la colazione e il pranzo. Generalmente nel cestino metteva: due coppie
di pane cotto
nel forno del casale, delle cipolle e, quando capitava, qualche uovo. Per bere preparava
un fiascone di vino e uno di acqua.
Finito di sistemare il bue e la cesta con le vivande si caricava l'aratro sul carro. Dopo
di che, all'incirca
alle quattro del mattino, la famiglia si dirigeva verso il campo.Generalmente il primo
campo che aravano era la "Tenuta della serva". Mentre si dirigevano al campo, Gioconda, la più
vista della famiglia, cominciava ad intonare una canzone, subito dopo le si accodava anche Raniero coi figli.
Molto spesso, lungo la strada, si potevano incrociare amici e gente che non erano del
paese, tipo i Vignanellesi, ma che coltivavano la terra a Vasanello.
Una volta giunti al campo si sganciava il carro e si metteva in un angolo dove non avrebbe
dato fastidio. L'imbracatura del bue veniva sostituita dal "gioco" cioè una cinta di
cuoio larga all'incirca venti centimetri.
Questa cinta veniva agganciata sotto al petto del bue; lateralmente, invece, c'erano due
ganci che servivano per attaccarci le catene. Poi si scaricava l'aratro che veniva
attaccato all'animale.
Pace Raniero portava sempre con sè un bastone fatto apposta per colpire il bue quando si
fermava. Dopo aver fatto questi lavori, all'incirca alle cinque appena sorgeva il sole, la famiglia
cominciava a lavorare.
Raniero, che era il più robusto, reggeva l'aratro. Gioconda, andava a "fare" la
cicoria con i suoi figli:
Dopo circa quattro ore di duro lavoro la famiglia si riuniva sotto un albero per la
colazione.
Si mangiava del pane fatto in casa, qualche pomodoretto, una cipolla e si bevevano un paio
di bicchieri di vino.
Alcune volte succedeva che, mentre la famiglia di Raniero stava seduta a fare colazione,
passavano
i cavalli della famiglia Mariani: I cavalli erano generalmente sei, i quali trainavano tre
carri, sui quali
C'erano tre grossi aratri.
Allora Raniero diceva: "Eh, si ce li potevo avè io tutti
quelli cavalli ! Nun c'era bisogno de arzasse la
mattina alle quattro e a tist'ora emio aggià finito". Subito Gioconda allora gli rispondeva:
"E zitto. Accontentete
de quello che c'hai, che ce stanno addri
come Nino che vanno a giornata pe potè magnà una pagnotta de pane".
Alle dieci, prima che si riprendesse il lavoro, Raniero diceva: "Doppo
'na magnata accossì, nà bella pisciata".
Quindi si girava verso una pianta e faceva i suoi bisogni, dopo di che riprendeva il
lavoro, che proseguiva monotamente fino a quando Raniero non alzava gli occhi al cielo e non vedeva che il
sole era già alto.
Allora si accorgeva che era mezzogiorno e quindi era ora di pranzo. Sganciava l'aratro dal
bue, gli allentava la cinta e lo legava con una lunga corda ad una pianta. La Famiglia pranzava e i cibi erano gli stessi con i quali avevano fatto colazione.
Poi il lavoro proseguiva nel pomeriggio fino a quando non faceva buio.
Pace Riccardo -
Doddis Stellario (Classe - III/N)
La Prima Macchina che Lavorò le
Campagne Bassanellesi
LA SEMINA DELLA CANAPA
E DEL LINO
Nel mese di
novembre, ogni anno, Pasqua e Felice seminavano la canapa e il lino.
Avevano un campo vicino al casale di Gabriele Chiodi.
Anche quell'anno, una mattina di
novembre, Felice disse a Pasqua: - Pà, dovemo seminà i' lino e la
canapa: moete a vestitte e và a pijà la sappa e la vanga.
Te aspetto de
fora.
Pasqua rispose tutta insonnolita:
- Ma proprio oggi, nun se pò fà
'n'antro giorno ?
- No !
rispose
Felice determinato.
Pasqua se vestì, fece colazione e andò nella stalla a prendere gli attrezzi, che Felice
le aveva chiesto di
prendere. Insieme andarono nel campo ed iniziarono a zappare la terra.
Pasqua disse a Felice:
- Ammazza che freddo, mò vajo là di
casale a pija un giacchetto de lana pè te e pè me !
Pasqua ritornò nel casale, andò in
camera da letto, prese i giacchetti nel comodino e ritornò di corsa nel campo. Felice
aveva già fatto delle piccole buche nel terreno, nelle quali Pasqua seminò il lino e la
canapa. Mentre seminava cantava delle canzoni e Pasqua ad un certo punto disse:
- Felì, me lo sentio, eh: guarda 'n
pò, se sta a 'nuvolà ! Mo nun c'è bisogno nemmeno de annacqualli pè
dù giorni !
- C'hai ragione Pà; speriamo però che doppo 'sti dù giorni scappi i zole, se
no..........! Rispose Felice.
Verso sera rientrarono a casa e per 3 o 4 mesi non coltivarono più niente, perchè
dovevano aspettare che il lino e la canapa crescessero.
Passati i 4 mesi Pasqua e Felice, di mattina, andarono nel campo per vedere se le piante
fossero cresciute. Difatti era così. Il lino aveva un'altezza di circa 1m, mentre la canapa 1 m e
mezzo.
Pasqua disse a Felice:
- Quest'anno il lino e la canapa sò
cresciuti bè, è stata 'n'annata propio bona !
Felice rispose:
- C'hai raggione, annamo a chiamà
pure i fratelli mei: Enzo, Demetrio, Marzio !
E corse subito a chiamarli. Arrivati, Marzio esclamò:
- oh, e che jete dato da 'ste piante
!
Pasqua rispose:
- Se vede che ill'acqua e i zole de
'sti mesi j'hanno fatto bè !
Felice
chiese:
- Che ce potete aiutà a roncalle e a
facce tutti mazzetti ?
Demetrio
rispose:
- Va bè, ve aiutamo, però quanno
tocca a noi a roncalli e a facce tutti mazzetti ce aiutate pure voi !
Pasqua ad un certo punto esclamò:
- Spetta un pò, che vajo a chiamà
Anna, almeno me fa un pò de compagnia dummezzo a tutti sti ommini !
Enzo intanto andò nella stalla a prendere le falci e le roncole. Ognuno prese il suo
attrezzo e durante la
raccolta del lino e della canapa Pasqua ricominciò a cantare ed Anna insieme a lei. Anche
Enzo, Demetrio, Felice e Marzio si unirono al coro. Facendo qualche sosta, al tramonto del sole era
terminato il lavoro di raccolta. Erano stanchi, per cui decisero che avrebbero continuato il giorno dopo:
All'alba tutti
erano già pronti per fare i mazzetti. Ognuno prese una sedia e si misero a circoletto a
fare il lavoro.
Improvvisamente Enzo disse:
- Oh, stemo tutti zitti ! E
chiaccheramo un pò; è finita la guerra, mica stemo ancò in lutto, eh !
Anna rispose:
- Lo saccio, ma 'sto lavoro me
stracca e nun me piace e nun c'hajo voja de chiaccherà !
Finito di fare i mazzetti, bisognava
poi metterli a bagno dentro a dei bigonci di legno, dove restavano
per tre giorni. Quindi si toglievano dall'acqua, si lasciavano asciugare al sole per altri
tre o quattro
giorni. Arrivato il momento Pasqua disse:
- Oggi è 'na bella giornata e fa
pure callo: - Tocca de metteli a sciuccà 'sti mazzetti.
Quando il lino e la canapa furono
secchi al punto giusto Anna e Pasqua sistemarono i vari mazzetti sopra allo "MACCALATORE" e alla "MANCIVOLA", quindi con una mazza di
legno iniziarono a sfibrare i fusti, colpendoli e pestandoli ripetutamente. Pasqua:
- Quante tocca falle, eh, prima de
ecce una coppia de linzola noe !
- Eh, su, che stemo a bon punto: la maccalatura l'emo quaci finita, poi le matasse le
portamo a filà e ce
vorranno una ventina de giorni. Tu intanto Pà, cò Teresona, cò Tusolina e cò Ciuccia,
diji che noi simo quaci pronte, e che cò i' lino e la canapa de quest'anno ce volemo fa
dù coppie de linzola, una tovaja,
tre sciuccamano, e dù teli pè fa i' pane. Diji che se sbrgassono a tessa su 'sta po pò
de robba, che da
noi ce serve.
Quando tutta la canapa ed il lino furono filati, Pasqua di buon mattino si recò al
filatoio, presso l'ospedale vecchio, dove Teresona, Tusolina, e Ciuccia trasformarono il filo in tanta
biancheria. Quando Pasqua ed Anna la ebbero tra le loro mani, non finivano mai di guardarla, di sospirare, di
ripensare alle
fatiche fatte: ora erano tutte lì, sul tavolo, concretizzate in tanti teli grigi.
E si, grigi. Le loro fatiche non erano terminate: per vederli bianchi, quei teli andavano
ancora bagnati
e stesi al sole per tante, tante volte fino a quando quel grigiore lasciava il posto ad un
bianco quasi abbagliante, che andava ad arricchire il loro casale.
Pace Michele -
Silvestri Valerio (Classe III/N)
LA MIETITURA
L'estate scorsa
io e la mia amica avevamo deciso di andare a fare una piccola scampagnata. Siamo uscite
con la bici e, mentre correvamo cantando felici, abbiamo sentito delle voci. Così nel
tentativo di
capire da dove provenissero, abbiamo visto che in un campo c'erano un gruppo di anziani,
questi avevano appena smesso di mietere il grano e si stavano concedendo una piccola pausa per
riposarsi e
mangiare qualcosa.
Siccome era ora di pranzo, con il loro permesso ci siamo sedute e, essendo molto curiose,
ci siamo chieste come si raccoglieva il grano quando ancora non esistevano le macchine.
Poichè stavamo parlando ad alta voce, uno dei signori si è avvicinato dicendoci che chi
lo sapeva si chiamava: "PIERI MARIO" aveva 72 anni e ci ha raccontato che, dalla
nascita fino a quando aveva 11
anni , aveva vissuto in un casale e precisamente il casale di "PIETRADDA"
situato nella località omonima. Cominciò col dir ciò: "Prima
se araa con la PERTICARA, che portano i boi, poi se buttaa i concime:
i concime pè modo da dì, com'è a quelli tempi pè concimà c'era i letame de le
bestie."
"C'era solamente il letame per
concimare a quel tempo ?"
"Pè noi pori contadini si, solo i cristiani che c'eono i zordi se poteono permette
de comprà i concime. "Da quel
che mi dice suppongo che il concime
doveva costare molto." "E
c'hai raggione, solo che adesso pè i giovanotti come voi quelli sordi sarebbero come 100 lire."
"E' proprio vero, ma non è
della differenza dei soldi tra ieri e oggi, ciò di cui vogliamo parlare ora.
La prego continui a raccontare, ci ha molto incuriosite." "Doppo un pò de tempo se seminaa e poi se
zappettava....." "Aspetti,
aspetti, lei ha detto che dopo aver arato il campo si doveva aspettare un pò
di tempo e poi si concimava, ma come ?" "A mano co i caretto, comè prima nun c'erono le macchine che ce
stanno mo e se vedea perchè la robba era più bona de quella che c'è adesso."
"Forse lei ha ragione,
ma continui il suo discorso liberamente."
"Ve steo a di che doppo avè seminato se zappettaa la tera co
la sappetta ciuca."
"Quando e perchè ?" "Se zappettaa quanno i' grano era ardo 10 o
15 cm perchè toccava da levà le er_
bacce che faceano male da i grano."
"Cosa accadeva, poi si seminava ?" "Si, ma come l'ajo ditto prima,
nun c'erono le macchine e se metea a mano e co la fargetta."
"Tutto questo accadeva autonomamente oppure
c'era qualcuno che dirigeva la situazione ?" "Se c'era un cristiano che ce dicea quello che emio
da fa." "Ha capito
benissimo, e chi era, quest'uomo ?" "Ma nu me ricordo chi era però noi je dicemio
CAPO FARGE jea denanzi a tutti e facea la strae dummezzo i grano pè facce meta mejo e pe
fa i VARZO"
"Il varzo ? Cos'è ?" "E' na cintura de grano che serve pe legà i
grano stesso e quanno era legato i grano
scappaa fora la GREGNA e parecchie gregne insieme faceno i CORDELLO."
"Quando si mieteva, ci si di_
vertiva oppure c'era un'aria seria perchè si faticava ? " "Se faticaa, ma ce se divertiva pure, io me ri_
cordo che se cantaa." "C'erano
delle canzoni particolari attribuite alla mietitura ?" "Si, c'era O METO O
METO, però noi cantamio: SORA CELESTE, VE SETE ARZATA ALL'ALBA DE LE MOSCHE, I ZOLE V'E'
RIVATO
SA LE FINESTRE."
"E' una canzone molto simpatica,
ma dopo che avevate concluso la mietitura cosa accadeva ?"
"Se trebbiaa."
"Come ?" "Cò la trebbia, un trattore e i CENTURONE che potea essa
lungo 20 pure 30 metri." "Era i centurone che facea girà la trebbia."
"Era divertente come la mietitura ?" "No era più fa_
tica pe la polvere che c'era dummezzo la paja". "
"Quando anche la trebbiatura era terminata cosa facevate
?" "Co la paja se facea i
PAJAO, che era ardo 4 metri e pe fallo c'era la LANCIA."
"Come era fatta ?" "C'era un arbero de 5 m messo 50-80 cm
sottotera co attaccato un antro tronco e dellì ce se taccaa la paja."
Un'ultima domanda: "Come veniva
trasportato il grano ?" "Co'
la BAROZZA e coi BOI". "Lei
è stato ve_
ramente gentile per averci tolto le nostre curiosità su come si viveva prima. Grazie
mille e arrivederci."
Ramacci Angela
- Pieri Laura (Classe III/N)
LA RACCOLTA DELLE
NOCCIOLE
Il signor Pace
Raniero racconta che prima degli anni '60, l'intera popolazione di Vasanello usava raccogliere le nocciole "a mano" ancora verdi. Si abbassavano i rami delle piante, si
strappava la "pannocchia" e si metteva il tutto nei sacchi; per raggiungere i rami più alti si usavano
delle scale di legno.
Alla fine della giornata i sacchi venivano caricati sul carro per essere portati al
casale. La mattina successiva, per diversi giorni, prima di andare in campagna i contadini rovesciavano le
nocciole su un telo
e fatte essiccare al sole. Nel 1960 venne cambiato il sistema della raccolta: infatti le
nocciole si facevano seccare sui rami e si aspettava che cadessero da sole. Con il primo medoto la raccolta iniziava dopo ferragosto, mentre con il secondo la raccolta veniva rinviata alla
seconda settimana di settembre (10/12 del mese). Con entrambi i metodi si impiegavano
all'incirca 2 settimane. Questo procedimento
andò avanti fino agli anni '70 quando vennero introdotte le prime raccoglitrici. Queste
macchine trainate dai trattori, mediante dei tubi di gomma, aspiravano le nocciole miste alle foglie che
dopo alcuni passaggi, finivano direttamente nei sacchi abbastanza pulite. Queste macchine
avevano il grande merito di rendere l'operazione della raccolta più veloce e meno faticosa. Il loro costo,
però, era molto elevato circa 1.800.000 lire che per la maggior parte dei contadini era impossibile
sostenere. Spesso i
contadini erano costretti a chiedere in prestito il mezzo, pagando una certa somma di
denaro o impegnando una parte di raccolto, a coloro che, non senza sacrifici , avevano proceduto
all'acquisto. Talvolta alcuni contadini formavano delle società per comperare la raccoglitrice ed
utilizzavano il mezzo per
un periodo sulla base della quota versata. La famiglia Pace era formata da Raniero, sua
moglie Gioconda Libriani e i suoi due figli Mauro e Mario. Pace avevano due campi di nocciole molto
estesi ed era per questo che impegnavano molto tempo per la raccolta. Fino agli anni '50
Raniero raccoglieva le nocciole
da solo, avvalendosi dell'aiuto di sua moglie. Dagli anni '60 in poi potè impegnare anche
Mauro e Mario,
nati rispettivamente nel '48 e nel '56. Il primogenito all'età di 12 anni, decise di non
seguire l'esempio paterno entrando in seminario mentre il fratello continuò l'attività
agricola. Il signor Pace racconta che un anno, quando i suoi 2 figli erano ancora piccoli,
tutto il raccolto di nocciole, in uno dei suoi 2 campi,
andò a "male". Raniero racconta che si trovò in grande difficoltà, perchè il
guadagno era stato dimezzato e non era sufficiente a mantenere i suoi cari. Questa situazione di incertezza durò,
per fortuna,
poco tempo e dopo alcuni anni l'andamento della famiglia ritornò agli standard normali,
anzi, l'abbondanza di nocciole costrinse Raniero a ricorrere spesso all'aiuto di Maria Pace, la quale
si prestò volentieri in cambio di altri lavori agricoli. Da allora la famiglia Pace, grazie anche alla
presenza di una collaboratrice e all'impegno di mezzi più moderni, ha dimezzato i tempi di raccolta delle
nocciole incrementando così i profitti.
Doddis
Stellario - Pace Riccardo (Classe III/N)
LA VENDEMMIA
Era un pomeriggio
di ottobre: io e una mia amica stavamo passeggiando in un bellissimo prato verde,
con un delizioso vento tra i capelli.
Nell'aria c'era un buonissimo profumo di mosto e il sole splendeva caldo nel cielo. Io e
la mia amica
stavamo parlando di quale scuola avremmo dovuto frequentare, ad un certo punto seintimmo
delle
voci di donne che cantavano in dialetto bassanellese.
Curiose ci avvicinammo ad una vite e vedemmo che delle persone anziane stavano
vendemmiando
e intanto parlavano.
Senza farci vedere, ci avvicinammo un pò di più, ma calpestammo un ramo e ci videro.
Uscimmo fuori dal nascondiglio traditore e queste persone, come si è solito fare,
incominciarono a farci
il "TERZO GRADO" e cioè: -
Di chi sei figlia ? Come ti chiami ? Quanti anni hai ?..... Dopo aver risposto al_
l'interrogatorio una signora di nome DOMENICA CAPONE incominciò a parlarci di come si
vendemmiava.
Noi ci siamo sedute e ascoltavamo con passione la sua narrazione. Lei incominciò così:
- Abitavo in un
modesto casale con mio padre , CAPONE SILVESTRO e mia sorella CAPONE CLARA. Il casale si
trovava e tuttora si trova a FONTANA ANTICA. Il momento più bello della mia infanzia era
quando andavamo a
vendemmiare, perchè sapevo che mio padre ci avrebbe guadagnato un pò di soldi che
servivano a sfa_
mare tutta la famiglia.
Però, come tutti i lavori, anche la vendemmia richiedeva "olio di gomito".
Infatti, ci dovevamo alzare prestissimo per andare a preparare l'asino mio padre lo
aiutava mia madre,
ma poi, quando lei se n'è andata, lo aiutava mia sorella.
Si partiva dopo aver governato tutti gli animali e il nostro mezzo di trasporto erano
l'asino che trainava
il carretto, su cui caricavamo 4-5 bigonci, in più c'è ero io e mia sorella.
Essendo ancora piccola, non era abituata ad alzarmi presto per andare in campagna, così
mi addor_
mentavo comunemente.
Arrivati, iniziavamo subito e, tra un grappolo d'uva ed un altro, si parlava ma sopratutto
si cantava.
Le canzoni erano inventate da noi, oppure s'intonavano del paese, quindi in dialetto.
La signora DOMENICA continuò così: - Quando il carretto era pieno di bigonci colmi
d'uva, si partiva e si
andava nella cantina che si trovava nel paese "PAESE VECCHIO" ci andavamo per
torchiare l'uva.
Per far muovere il torchio servivano delle braccia forti come quelle di mio padre, ma
anche se capivo che ci voleva forza, chiedevo sempre a mio padre se potevo farlo anch'io.
Dopo aver fatto questo che richiedeva più di un giorno, mangiavamo e si mangiava pane e
uva o, tanto
per cambiare, pane e fichi.
Il lavoro della vendemmia non finiva mai, però l'atmosfera che c'era in quel posto era
bellissima.
Mi divertivo molto quando vedevo il vino uscire dal beccuccio del torchio.
Con la buccia dell'uva si usava fare la grappa che si beveva spesso e volentieri in
inverno.
Questa storia che a noi ha raccontato è piaciuta moltissimo, perchè abbiamo potuto
vedere che anche
se il mondo è cambiato, le vecchie abitudini sono sempre le migliori.
Straffi Rachele
- Soldini Francesca (Classe III/N)
LA RACCOLTA DELLE OLIVE
Era una piovosa
giornata d'inverno ed io mi stavo annoiando, quando sentii quillare il telefono: era la
mia amica Rachele, che mi chiedeva se potevo andare da lei a giocare. Appena arrivai,
iniziammo a discutere su cosa fare, dal momento che pioveva. Così decidemmo di scendere a
giocare ai "negozianti" nella taverna. Dopo aver tanto giocato ci accorgemmo che aveva smesso di piovere
ed era uscito un bell'arcobaleno. Pensammo perciò di uscire a fare una passeggiata.
Strada facendo, incontrammo una signora anziana, DOMENICA CAPONE, soprannominata
Mecuccia, di 69 anni. Le abbiamo chiesto cosa stava facendo e lei ci rispose che stava
preparando gli attrezzi per raccogliere le olive; iniziammo a seguirla. Camminando camminando, ci parlava di come si raccoglievano le olive.
"Quando ero una bambina, orfana di madre, abitavo nel casale di FONTANA ANTICA con mio padre CAPONE
SILVESTRO, e mia
sorella CLARA. Ci dovevamo alzare prestissimo per governare gli animali, che erano lì nel
casale e verso le 6,30, si partiva per l'oliveto. Ci andavamo con il nostro fedele asino e
con il carretto, che, oltre a trasportarci, serviva "a caricare" gli attrezzi, come il telo per
"raccogliere" le olive, la scala, ed i bigonci.
Appena arrivati nell'oliveto, scendevano dal carretto staccandolo dall'asino, che invece
lo legavamo ad
un albero per paura che fuggisse. Quindi iniziavamo subito lopera. Mio padre con mio
fratello, appoggiavano una scala all'albero e, facendo molta attenzione, salivano sulla scala mentre io e
mia sorella ci
preoccupavamo che non scivolassero. Io non mi sono mai arrampicata su di un albero,
perchè soffrivo
di vertigini. Comunque, anche io avevo un pò di lavoro: dovevo sistemare un telo sotto i
piantoni che serviva per raccogliere le olive.
Poi seguiva l'operazione della scelta: venivano eliminate i frutti rovinati, le foglie,
eventuali zolle di
terra ecc.
Verso mezzogiorno e mezzo si sospendeva il lavoro, perchè la fame incominciava a farsi
sentire; si
mangiava un ottimo pane e pomodoro, cosparso di solo sale e, molto spesso, senza olio
perchè quello
dell'anno precedente era finito già da un pezzo. Il nostro stomaco, dopo questo pasto,
resisteva ancora per poco ai morsi della fame. In queste condizioni si ritornava al lavoro, ancora per
qualche ora, poi,
quando i polpastrelli delle nostre dita incominciavano a reclamare, indolenzite per il
troppo strisciare
dei ramoscelli, si versavano le olive nei bigonci e si partiva alla volta del frantoio,
dove le olive e, le
nostre fatiche, diventavano finalmente olio."
DOMENICA CAPONE aveva terminato il
suo racconto. Noi dopo essere tornate a casa, volevamo essere
solidali con lei, almeno per una volta e ci preparammo un piatto di pane, pomodoro,
sale..... naturalmente senza olio.
Soldini
Francesca - Straffi Rachele (Classe III/N)
DIVISIONE DEL LAVORO
TRA UOMINI DONNE E BAMBINI
Una rara immagine fotografica
scattata nel secolo scorso: Due bambini portano al pascolo poche
capre in una desolata campagna; da quelle capre trarranno una parte del loro scarso cibo.
I bambini , invece di andare a scuola, contribuivano col loro lavoro alla vita della
famiglia.
Da allora ad oggi l'impegno e la lotta politica del movimento dei lavoratori e dei partiti
democratici insieme al processo di industrializzazione hanno portato al progressivo
miglioramento delle condizioni di vita.
La mia famiglia
racconta Berbardino Capone andò ad abitare nel casale di Paradda alla fine del 1938.
Il casale apparteneva ai miei genitori, Nazareno Capone e Fabiani Anna. Il casale era ad
un solo piano,
diviso in due grandi stanze, la cucina e la camera da letto. In cucina vi era un tavolo di
legno con delle
panche al centro, da un lato vi era un muretto dove venivano appoggiate delle brocche che
servivano per contenere l'acqua. In fondo alla stanza vi era una finestra e, accanto, un
piccolo "catino" che serviva per l'impasto e la lievitazione del pane.
Su un altro muretto erano appoggiati i "pignatti" recipienti che servivano per
cuocere legumi, lo scolapasta e alcune pentole tutte in terracotta (molti di questi pignatti sono stati portati
via dal casale ormai disabitato e sono conservati con cura dalla zia Domenica appassionata di questi oggetti
antichi).
Nella camera vi era un letto grande e un armadio. Il locale più grande del casale era
stato utilizzato come stalla per i vitelli, le mucche, l'asino mentre i maiali avevano il loro spazio
all'esterno il "Mandriolo".
Nel 1948 la famiglia era aumentata, in tutto 5 persone con la nascita di Tonino.
Nel casale ognuno aveva dei compiti ben precisi, aggiunge Bernardino: mamma Anna si
dedicava alla cura del bestiame ed io fino a che ero ancora troppo piccolo per il lavoro
nei campi, l'aiutavo in qualche lavoro nella stalla. Intorno ai dieci anni, ma anche
prima, sia io che mia sorella Mecuccia andavamo nei camoi a coltivare patate, pomodori,
legumi, fagioli, ceci, cicerchie, ecc. tutti alimenti che servivano per
l'inverno. Mia sorella era una ragazza vivace e lavoratrice e non aveva problemi a
svolgere anche da sola questi lavori. Nel periodo della mietitura tutti collaboravano
perchè questo questo era un lavoro
faticoso che richiedeva l'impegno sia delle donne che degli uomini. A maggio si falciava
il fieno, poi quando era asciutto si facevano i "pagliarozzi", cioè mucchi di
fieno per il pasto invernale degli animali.
Nel mese di giugno tutti si alzavano presto perchè si mieteva il grano di prima mattina
con il fresco.
Dopo la mietitura si trebbiava; avevamo così il grano che veniva macinato al mulino e si
aveva la farina
per tutto l'anno.
A ottobre si vendemmiava con l'aiuto dei buoi che tiravano il carretto carico di
"bigonzi". Si portava a casa l'uva, si macinava e si metteva nelle botti a
fermentare. Dopo una settimana si "svinava" e si otteneva il mosto nuovo. Berbardino racconta ancora che questi lavori erano faticosi, ma
tutti i casalanti si riunivano per aiutarsi l'uno con l'altro e alla fine del lavoro, a sera, si stava
insieme e si faceva festa. Si mangiava ed inoltre si ballava, si cantava al suono dell'organetto e della
fisarmonica.
La vita della donna nel casale era molto impegnativa, perchè non andava soltanto nei
campi a lavorare ma doveva anche prendersi cura della casa, dei figli e delle persone
anziane. Doveva andare innanzi
tutto a prendere l'acqua alla sorgente, molte volte con l'asino, spesso a piedi con le
"bagnarole" che riempite d'acqua metteva sulla testa, appoggiate su un panno
arrotolato a ciambella, "la coroja".
Arrivata a casa doveva accendere il camno per preparare il pranzo, e non toglieva mai dal
fuoco, "il callarello" con l'acqua che poteva servire in ogni momento per
lessare verdure cuocere pasta ecc.
A quei tempi si cucinava soltanto sul camino perchè non esisteva ancora la stufa a gas
nè il forno che oggi abbiamo nelle nostre case.
La donna, naturalmente, si occupava dell'ordine e della pulizia della casa e in questo non
era aiutata dal marito che aveva altro da fare nelle stalle, nei campi o nella
manutenzione degli arnesi da lavoro.
Il pavimento dell'abitazione era in mattoni rossi e non richiedeva un'igiene particolare.
Dunque si poteva lavare anche piuttosto a lungo, mentre si doveva spazzare tutti i giorni
con la scopa
rigida di "saggina" perchè le molliche di pane che restavano a terra potevano
richiamare le formiche, sopratutto in primavera e in estate.
La donna di una volta, quella che viveva nei casali, doveva saper fare tante cose: cuciva
per sè per il marito, i figli, almeno gli indumenti più semplici, quelli da lavoro e
rammendava, rattoppava, "ripezza_
va". Lavorava anche a maglia e con i ferri confezionava maglie, maglioni
scialli, "sciallette" e persino
calze e calzettoni, un lavoro dunque non facile che richiedeva molta attenzione e
abilità.
Durante il giorno la donna quindi lavorava sia nei campi dove aiutava gli uomini a
vangare, a zappare,
a mietere, a vendemmiare, sia in casa dove riordinava la cucina e tutte le altre stanze,
inoltre, custo_
diva gli animali nelle stalle ecc.
Perciò soltanto la sera, quando ci si riuniva intorno al focolare, mentre gli uomini e
gli anziani racconta_
vano storie di streghe e fantasmi che tanto incantavano i bambini, oppure mentre si
recitavano le pre_
ghiere... la donna non perdeva tempo... e lavorava ai ferri...
Quante cose dovevano uscire dalle sue mani !
Nei casali i bambini dovevano crescere in fretta, essere responsabili e aiutare gli adulti
fin dai sette,
otto anni. I genitori li portavano nei campi, nei vigneti, oliveti ecc. e qualcosa da fare
adatto a loro si
trovava sempre.
I maschi imparavano dal padre e le femmine dalla madre.
Le bambine in particolare si occupavano dei fratelli, in assenza della mamma, dunque
imparavano ad essere delle piccole donne intorno ai sei, sette, otto anni.
Capone Anna -
Boria Valentina (Classe III/L)
RACCONTI DI ANNI DI
CARESTIA
(Nevicate, Grandinate, ecc...)
Questa storia
viene raccontata da Creta Formina, Creta Luigi e Creta Giovanni, che, un tempo, furono
abitanti del casale "Di Annuccia" o "Casale Roscio", chiamato così
per il colore con cui era stata tinteg_
giata la facciata.
Nelle terre di questo casale c'era molta coltura di grano, uva, nocciola e ulivi.
Gli anni peggiori per il casale "Di Annuccia" iniziarono nel 1915 circa e
dirarono fino al 1925 circa.
Ogni anno si produceva molto grano, molto vino ed olio, che era fondamentale per il
sostentamento
della famiglia, perchè, quasi ogni giorno, Paolocci Annuccia preparava gli spaghetti con
dell'olio fritto.
Anche il vino era importante, perchè se c'era un anno in cui il vino veniva buono si
manteneva per 3 o 4
anni.
Poi nel 1915, durante la "pulitura" del grano dalle erbacce, ci fu una grande
nevicata.
Ma il Capostipite Antonio Creta non era preoccupato, perchè si rifaceva al proverbio
"Sotto il gelo fame
sotto la neve pane". E così fu. Infatti dopo alcuni mesi, il grano germogliò di
nuovo e divenne più alto di
prima.
Poi, però, nel 1916, precisamente in aprile, quando la famiglia Creta era già in
situazioni di miseria, ci fu una forte grandinata che colpì gran parte del paese e le
zone di "poggio pelato" e di Settignano.
In quel periodo il casale era diventato una sorta di magazzino, si dormiva sopra le
"balle" di nocciole, si
mettevano le patate sotto il letto e il grano nei vari contenitori che si trovavano in
casa.
Tutti in famiglia erano preoccupati e persino Antonio Creta:
"Ma je porto là un pò de vinaccia da iì com_
pare Giuanni, chè così ce facemo un pò de vino annaquato !"
e la moglie gli rispondeva:
"Così cè stemo
bè pè tutto ill'anno !".
E così fece, si arrangiarono per un
anno intero, ma anche per gli anni seguenti, con questo vino anna_
quato e con un pò di agnello al giorno.
Ci hanno raccontato anche che in quelle condizioni le madri erano costrette a fare dei
sacrifici enormi, infatti Creta Luigi, che era il più robusto dei figli, all'età di
pochi mesi venne privato del latte materno,
che venne dato a suo fratello e coetaneo Creta Lanno, che era un pò meno robusto e che
senza quel
latte sarebbe morto di fame.
Ci raccontano che in quegli anni infuriava la guerra e a volte, delle sere che faceva
freddo, ci si sedeva davanti davanti al fuoco e si parlava di politica, e Antonio Creta,
il più anziano, faceva dei discorsi sul
capo di stato, sui tedeschi e sulla guerra, si lamentava sempre e era anche nervoso, ma
tutti i familiari
lo capivano, perchè d'altronde vedeva il suo raccolto andato a male.
Poi nel 1932 questo periodo di carestia finalmente finì, ma il capostipite Antonio Creta
e sua moglie An_
nuccia si sentirono male, poi morirono, lui nel 1932 e sua moglie nel 1936. Però il
casale fu ereditato
dai figli e dalle loro famiglie.
Lelli Federico
- Putzu Marco (Classe III/N)
Una vigna dopo la grandinata del
29.08.1983
RAPPORTO CON IL PADRONE