Aspetti
della Vita del Casalante
Il Lavoro - Il Divertimento - La
Religiosità - Il Costume - Personaggi Tipici
Il Costume
L'uccisione
del Maiale
Intorno agli anni
'20 la vita a Vasanello era molto difficile.
La gente che viveva dei prodotti della terra, unico loro sostentamento, non avendo molti
soldi, mangiava ciò che coltivava o allevava. Il signor Mecocci Nazareno, di 79 anni, ci ha
raccontato che quando
era ancora piccolo e viveva nel casale a Poggio Paradiso, un grande avvenimento era
l'uccisione del
maiale, fase conclusiva di una serie di operazioni comprendenti l'acquisto e
l'ingrassamento.
Ci si recava da un casalante che ne aveva l'allevamento. Molto spesso tra il casalante e
l'acquirente
scoppiava una sorta di "lite", che raramente comprometteva la trattativa.
L'acquirente faceva il furbo e diceva:
"Costa troppo, nun te lo compro"; il casalante rispondeva:
"E vabè, te basso ì prezzo, pure si ce rimetto" e così l'accordo veniva siglato. Il maialino veniva portato in
un piccolo porcile in campagna; seppure sussistesse un vago timore di essere derubati. Qui
veniva accudito e "governato" con lo "BERONE": mangime, acqua, semola e
farinaccio e gli avanzi dei pasti.
Al momento dell'acquisto, il piccolo maiale aveva già 2 o 3 mesi, quindi bisognava
controllare il suo
stato di salute, come del resto a tutte le bestie.
Dopo essersi assicurati che stesse bene si "governava" 2 volte al giorno;
mantenerlo non era costoso,
naturalmente se si compravano prodotti più specifici la spesa era più elevata.
La sua alimentazione variava secondo le stagioni: in primavera oltre alla semola, al
farinaccio e al
mangime gli si dava anche l'erba in estate tutti i frutti della campagna.
In autunno, invece, mangiava le ghiande e il granturco.
Infine in inverno gli si "faceva la festa", visto che veniva ucciso all'età di
circa un anno. La mattina dell'uccisone il casalante si alzava presto; se aveva altre bestie prima si occupava di loro,
ad esempio portava al pascolo le pecore, dava da mangiare alle mucche ed ai polli, poi
pensava al maiale.
L'uccisione avveniva in campagna vicino al porcile ; ci volevano 2 o 3 uomini per tenerlo
fermo visto
che si agitava molto. Alcuni lo reggevano per le zampre, altri per le orecchie e un'altra
persona si inginocchiava in prossimità del ventre per bloccargli l'articolazione.
Al casalante non dispiaceva ucciderlo perchè lo aveva comprato e allevato proprio per
questo. E poi
essendo la più grande risorsa della famiglia non si poteva far certo prendere dal
rimorso. Si uccideva
con lo "scannatore", un coltello a punta che veniva infilato nel collo del
maiale, perchè lì non c'era il
muscolo, per poi farlo giungere al cuore.
Se c'erano delle donne, collaboravano reggendo la conca per il sangue che usciva, il quale
veniva usato per fare i sanguinacci con pane e grasso.
Le donne, al momento dell'uccisione esclamavano, un pò dispiaciute, frasi del tipo:
"Pora bestia nun ze
meritava de fà sta finaccia". Gli uomini ribadivano:
"Ma steteve sitte, 'ste galline, che poi quanno lo magnate ce
dicete
che emo fatto be". Le donne
facevano anche altri lavori come quello di lavare le budella per fare le salsicce oppure in un gran pentolone facevano bollire l'acqua per pelare
il maiale e
preparare il sale per salarlo.
A quel tempo il mezzo di trasporto più comune, per spostare il maiale fino al casale, era
l'asino. L'animale veniva legato sull'"impasto" dell'asino, cioè sulla schiena.
Dopo averlo appeso sull'"uncinaria" nel magazzino, lo pelavano e gli aprivano il
ventre con un coltello,
togliendogli gli intestini e la parte magra sopra i reni con cui si facevana la
"padellaccia". Per festeggiare l'avvenimento che di solito correva durante il periodo natalizio, si riuniva tutta
la famiglia così
che il pranzo era più allegro. Dopo la padellaccia era usanza mangiare tocchi di
formaggio fresco con
un notevole aumento delle calorie, perchè, dicevano, era opportuno recuperare le forze.
Durante la cena si brindava con motti del tipo:
"Anche quest'anno ce semo riuniti, emo magnato, emo bevuto e ce semo
divertiti".
Ed altri rispondevano :
"Peppe
c'ea proprio raggione emo fatto bè a fà 'sta riunione".
Il giorno dell'uccisione del maiale veniva scelto durante la fase di luna piena, mentre il
giorno dopo o
l'altro ancora si spezzava.
Si tagliavano prosciutti , capicolli, spalle, lardo, utilizzando tutte le parti
dell'animale.
Poi si procedeva alla salatura.
Subito dopo, il casalante decideva se comprare un altro maiale o aspettare un pò di
giorni. Il signor Nazareno ci ha riferito che suo padre, Giuseppe, quando doveva condurre il maiale al
mattatoio, doveva sempre frustarlo, perchè appena la povera bestia si avvicinava
all'entrata, forse sentendo un odore sgradevole scalciava e cercava di fuggire.
Infine ci ha raccontato che ancora oggi lui e la sua famiglia uccidono i maiali seguendo,
a grandi linee,
le modalità tradizionali apprese grazie all'esperienza antica, ma efficace, di suo padre.
Mecocci Diana -
Giacinti Valentina (Classe III/N)
Vivere in un Casale a 11 Anni
Un pomeriggio, io e la mia amica
siamo andate a passeggiare sul prato e, mentre camminavamo, abbiamo notato un anziano signore, al quale era caduto un fazzoletto. Ridandoglielo ci ha
confidato che
per lui quel pezzo di stoffa era molto prezioso, perchè gli era stato donato dalla mamma,
che ora non aveva più, per il suo decimo compleanno, festeggiato nel casale in cui
abitava.
Interessandoci a questa storia, cortesemente ci siamo fatte raccontare di come si passava
un inverno
nel casale. Dopo aver detto a quest'uomo i nostri nomi, perchè ce li aveva chiesti
abbiamo posto a lui
la stessa domanda e ci ha risposto che si chiamava PIERI MARIO E CHE AVEVA 72 ANNI. Egli,
incominciando a parlare, disse:
"I casale meo se chiamaa
PIETRADDA e se dicea così comè sta messo sopra da
un posto ardo e tutte pietre. Pè mea sfortuna m'hanno portato via da dellì quanno ero
munello: ceo 11
anni e adesso che sò vecchio nun me ricordo più gnente de quelli pochi anni passati
dellì".
Continuò dicendo che benchè avesse 11 anni; forse anche meno, nel pomeriggio doveva
lavorare la
terra, quindi era un piccolo contadino. Lavorava solo il pomeriggio, perchè la mattina
andava a scuola. Prima di andare a scuola, però, Mario faceva colazione;
"Che cosa si mangiava ?"
"Purtroppo
a quelli tempi la colazione nun era come oggi, mica noi c'emio le brioscine come voi.
Magnamio la cicoria fritta
cò che rocchio, ma che vorda, i latte cò ill'orzo o i latte solo se beea quanno se stea
male, e solo si
c'emio le vacche e le pecore che faceano quello friccico de latte."
Ha
continuato col dire che non avevamo molto per vestirsi solo un paio di pantaloni e una giacca e solo chi era più fortunato
poteva avere la sciarpa pesante.
"Certe vorde facemio pure a litica e a pera pè i
vestiti"
ci ha detto lui;
"Me ricordo che una volta
prima
de ì a scola cò Pietro, i fratello meo, ce simo messi a litigà pè 'n paro de carzoni.
Quanno è venuto su babbo certi sganassoni c'ha dato !".
"Dove andava lei a scuola ?"
"Io jeo a scola a BAGNOLO , da le
SCOLE RURALI quelle che ea
fatto MUSSOLINI nel 1933. Quella scola però duraa solo 3 anni,
quell'altri
2 anni toccaa i a falli in paese."
Mentre Mario andava a
scuola la mamma, il babbo e le persone che rimanevano nel casale si occupavano di lavori domestici e dei campi. Le donne pensavano a
pulire la casa e a preparare il pranzo , mentre gli uomini dovevano pensare ai lavori agricoli, cioè
dovevano portare a pascolare gli animali, sopratutto capre e pecore.
"Tenendo conto che l'orario scolastico terminava alle 12,30 a che ora tornava a casa ?"
"Tornao a
casa lapp'all'una. Certe vorde, quanno c'era la fanga, pe la strae c'era i pericolo de
caee roppese che cianga, perchè se scivolaa sopra la fanga. Que
te lo dico, perchè na vorda Pietro ha fatto propriò sta fine: stemio a camminà e è
cauto jo per tera come un faciolo; per fortuna che che la cianga nunse l'è rotta, sinnò i zordi do li jemio
a pijà ?!"
Quando tornavamo a casa trovano
la tavola apparecchiata per il pranzo che offriva un pasto non molto ricco. Si poteva
mangiare un giorno la minestra , un giorno pasta e fagioli e la pastasciutta solo la domenica.
"Quanno stemio a
pranzo nun ce divertimio parecchio: mamma cò babbo parlaono solo de ì
lavoro e diceono che nun c'erano i zordi, ma quanno nun se chiaccheraa de que ce
divertimio com'è babbo ce raccontaa de quanno era munello esso, nun jea a scola perchè
ea da portà a pascolà le pechere che certe vorde ji scappaono via."
Dopo pranzo però tutti dovevano ritornare ai propri lavori e anche Mario doveva aiutare
il babbo nei lavori domestici o agricoli. Infatti, quando non pioveva, si doveva andare a
raccolgiere la legna nei boschi, ci si andava con il carretto e, quando la legna sul carretto non ci entrava più,
dovevamo portarla
in spalla e si faticava molto di più. Quando tornavano a casa la cena era già pronta e
si poteva mangiare o la cicoria fritta, o il pollo o i rocchi ma sopratutto gli avanzi del pranzo.
"La carne se magnaa quanno se stea male, come ì latte; infatti quanno jei di macellaro a comprà la carne esso te
chieea: "chi sta male ?"
Il resto della serata si passava vicina al camino e si ascoltava nonno
ANACLETO che raccontava le "frangiottole".
"Se stea vicino i cammino co che bicchiere de vino e la magior parte
de le vorde ce arzamio su che erimio brilli."
Si andava a dormire molto presto, anche per causa di un solo
lume a petrolio che illuminava tutto il casale. lLa storia che quest'uomo ci ha raccontato è
assolutamente vera,
ed è solo una parte della storia di un intero paese, è una storia affascinante e piena
di sacrifici, che a
noi ragazzi di oggi fa anche sorridere, ma sopratutto pensare.
Pieri Laura -
Ramacci Angela (Classe III/N)
IL MALOCCHIO
(Occhiaticcio)
Il malocchio è un influsso
malefico che, secondo la superstizione popolare, viene esercitato da alcune
persone mediante la loro sola presenza.
Molto diffusa è la credenza che il malocchio sia collegato sopratutto con lo sguardo
malaugurato dello
iettatore.
Il malocchio normalmente, nelle tradizioni popolari, viene combattuto con amuleti tipo
cornetto o gob_
o con scongiuri, corna, toccaferro; toccalegno. Di solito il malocchio viene esercitato da
persone ansio_
se nei confronti di alcuni soggetti di bella presenza o benestanti. Nel tipico linguaggio
dialettale Vasa_
nellese la parola malocchio è stata tramutata in "occhiaticcio".
Nel casale di mia zia, il casale di Campomorto, non si credeva a queste superstizioni.
Tuttavia, una se_
ra di maggio, quando fuori l'aria era leggera leggera, a mia zia, Veneranda Meloni, che
non mangiava,
la mamma Rosa per precauzione decise di fare un esperimentoper scoprire se qualcuno avesse
fatto
l'occhiaticcio a sua figlia.
Così Rosa versò dell'acqua in una bacinella, intinse un dito della mano nell'olio e fece
sulla fronte di Ve_
neranda un segno di croce, ripetutamente.
L'esperimento consisteva nel far cadere gocce di olio nella bacinella; questo doveva
cadere uniforme_
mente, in caso contrario, significava che il malocchio era stato fatto a sua figlia.
Veneranda, mentre
era in atto questo esperimento, aveva molta paura, provava timore, prima di iniziare
questi esperi_
menti era molto ansiosa.
Però, fortunatamente, Veneranda non aveva ricevuto il malocchio da qualche iettatore.
Questi espe_
rimenti sono stati fatti molti anni fa, circa trenta, trentacinque, intorno agli anni
1960-1965, quando
mia zia aveva 10-14 anni circa.
Alle persone a cui era "diagnosticato" l'occhiaticcio era consigliato indossare
un fiocchetto rosso at_
taccato al vestito oppure doveva possedere un cornetto rosso o un ciuffo di pelo del
tasso. L'occhiatic_
cio, sempre nelle credenze popolari, veniva espresso anche in maniera più malvagia, ossia
attraverso influssi malefici chiamati fatture.
Nell'antichità si credeva che le fatture fossero fatte da streghe per produrre del male,
anche fisico a persone odiate.
Mia zia, Veneranda Meloni, mi ha detto che la più comune stregoneria che viene raccontata
di genera_
zione in generazione è quella che vede protagonista una piccola rana alla quale veniva
legato un ca_
pello, appartenente alla persona odiata, alla zampa in modo da bloccare la circolazione
sanguigna dell'arto.
Così facendo, la zona, col crescere, sarebbe rimasta malformata e il dolore provocato si
sarebbe river_
sato sul proprietario del capello.
La credenza a queste superstizioni era relativa; infatti solo parte della popolazione ci
credeva.-
Mattaccini
Michele - Nustriani Andrea (Classe III/M)
LE MALATTIE
(Casale della Rinchiusa)
Alcune malattie
oggi facilmente curabili nei tempi passati erano molto pericolose o addirittura poteva_
no essere mortali. Per esempio l'appendicite, oggi facilmente curabile, in tempi passati
poteva anche causare la morte, e così valeva anche per coloro che soffrivano di ernia. I
metodi usati spesso erano molto efficaci; si sentiva dunque meglio anche senza prendere
gli antibiotici. Ormai questi sistemi per
curare le malattie, non si usano più, tranne qualche piccolissima eccezione.
Ora, per curarli andiamo in farmacia, si compra la medicina opportuna, secondo il parere
del medico.
Se ancora oggi si usassero alcuni di questi vecchi metodi forse sarebbe meglio, poichè
molte medicine
in circolazione fanno in alcuni casi molto male.
Le persone intervistate su questo argomento hanno dai sessanta agli ottant'anni; tra
queste Riccardo Bigoni di anni 62, il quale dice che per i dolori muscolari usavano
dell'olio caldo, che veniva applicato
sui muscoli degli arti o sulla parte dolorante con dei leggeri massaggi.
Abbiamo intervistato l'abitante del casale presso la località "Rinchiusa", il
quale ha cominciato dicen_
do che nei tempi passati si lavorava molto nei campi (essi con i loro prodotti
permettevano di vivere)
e spesso poteva accadere di prendere distorsioni. In questo caso si mettevano davanti al
fuoco, appli_
cavano sulla parte una fasciatura calda; questo rimedio faceva molto effetto.
Quando si aveva il mal di denti, dopo la cena si bevevano liquori ad alta gradazione per
poter calmare
il dolore. Giovanni Creta, anche lui ex abitante del casale, padre di Italo, chi ha
raccontato che lui i li_
quori non li beveva ma quando suo padre glielo mise nel bicchiere, scambiandolo per
l'acqua, lo bevve,
il dolore al dente passò.
Nella stagione autunnale il freddo causava ai piedi o alle orecchie i geloni. Per curarli
cuocevano l'aglio
e poi lo "strofinavano" sulla parte malata. I casali non erano sufficientemente
riscaldati e ci poteva es_
sere il rischio che si prendessero delle malattie polmonariì, la tosse; per curare queste
malattie aveva_
no i vari metodi come quello dei fumenti, cioè si prendeva un recipiente pieno d'acqua
molto calda, vi
si immergeva il fiore secco della camomilla, che cedeva all'infuso le sue proprietà
calmanti che veniva_
vano respirate attraverso il vapore acqueo.
Quando soffrivano di mal di gola avevano diversi mezzi per curarlo, foglie, pezzi di fico
d'india, semi di
lino, decotto di malva, infusi di fiori di camomilla spremuta di limone, patate a fette,
cenere calda, ace_
to; attraverso applicazioni o bevande. Quando avevano la febbre alta cercavano di
mantenere la tem_
peratura bassa tenendo in mano grossi chiodi di ferro. Un altro metodo ancora oggi usato
era quello di
appoggiare un fazzoletto bagnato di acqua fredda sulla fronte del malato. Se soffriva di
anemia, debo_
lezza cronica deperimento organico si usava questo rimedio: si faceva bollire nel vino un
grande chiodo detto "da staccionata". Questo chiodo, sottoposto all'azione
dell'alcool cedeva una parte di ferro al vi_
no che veniva dato a bere: ilcosidetto "vino ferroso". Questi chiodi erano
facilmente reperibili in quanto
venivano fabbricati nel paese dai vari fabbri.
Creta
Alessandro - Calidori Stefano (Classe III/M)
LA CONSERVA DE
PUMMITORO
Un giorno siamo
andati a pranzo da Soliva e c'era anche sua nipote Sara. Nel bel mezzo del pranzo So_
liva dice a Sara:
- Oh Sa', doppo me
vai a comprà 'na cassetta de pummitori su da Mariella ? Me tocca facce la conserva.
Noi incuriositi, chiediamo a Soliva:
-
Solì, ma che la conserva non la compri bella e pronta da i' super_
mercato ?
Soliva dice:
- No, 'na vorda ogni
passata de papa la compro, quando nun nun c'hajo tempo, sinnò la
faccio a mano come se facea 'na vorda.
Noi incuriositi le chiediamo:
- E
come se facea la conserva prima ?
Soliva ci incomincia a raccontare: - Ete da sapè che fino a 40/50 anni fa nun c'erano le
fabbriche che
facevano le conserve come adesso, drendo li barattoli. Si te servia te tocaa fattala da
per te.
Però quando se facea la conserva ce volea più tempo de adesso, io abitao da i casale de
le filagnacce
e quanno era ora, noi femmine pijamio li schifi do' ce mettemio i pummitori spaccati
dummezzo.
'Sti pummitori toccava metteli co' la parte tajata a sole.
'Sti schifi, poi, li mettemio da tutte le parti dò se reggeono, sopre i muretti, sopre i
davanzali, de le fi_
nestre, sopre li scalini e si prato.
Noi a questo punto le chiediamo: - E perchè se metteono da tutti sti posti e no
drendo casa ?
Soliva ci risponde:
- Se metteono a sole, perchè toccava falli
seccà. Ce se lasciono pè parecchi giorni
fino a quando de tutto i' pummitoro nun c'era rimasta che la cocchja. Dopo i pummitori
venivano pas_
sati a mano pe' parecchie vorde, prima de buttà via la cocchja e i zemi.
Quanno 'sti pummitori venivano passati a mano i' zucco che scappaa fora era tarmende denzo
che da
le tavole c'erano nemmanco i riarzi daparte. 'Sto succo, poi venia messo a sole.
C'erano parecchi pericoli però, toccava sta' attenti da i munelli che giocavano a palla e
a topa, da le
mosche , da la porvere de la strae, che ancò nun erano asfardate. Tocaa sta attenti da le
galline e pure da i zomari, perchè ogni tanto deono 'na leccata da li schifi. I' nemico
peggiore, però è sempre stato i'
temporale, perchè ill'acqua fa inacidì la conserva.
Quanno se vedea che steape' venì un temporale succedea un '48, tutte le femmine che
cureono pe' i
prati co' le cuperte sa la mano pe' mantà su li schifi.
Doppo parecchi giorni, quanno era rimasta tutta robba denza denza, se raschiaa e se
appallottaa e
quelle palle poi venivano onte co' ill'ojo pe' falle mantienè.
Quanno 'ste palle erano pronte se metteono tutte drendo 'na cazzarola de coccio e se usano
durante
ill'anno pe' facce i' zugo.
Io m'aricordo che era una bellezza vedè tutte quelle tavele piene de conserva rossa come
i foco.
Quanno scappai de casa ei da sta attenti do' mettei i piei; jo per tera, su per aria
tavele, tavelette,
schifi, schifetti... e tutte le femmine co' uno straccio sa le mano pe' scaccia le mosche
e sa quell'andra
una cucchjara pe' rimucinà le conserva... Che tempi, che tempi... se faticaa de più ma
se stea tanto
mejo; la robba che c'ei la sentii più toa.
Pace Riccardo -
Pace Michele (Classe III/N)
LE INFIORATE
AMOROSE
Oggi è facile
socializzare, comunicare, esprimere i propri sentimenti senza falsi pudori. Un tempo, in_
vece, c'erano tanti tabù: non si poteva dire certe cose, non si poteva manifestare
apertamente affetto
per una ragazza e farle la corte richiedeva una certa dose di coraggio. Per una giovane
donna, poi, era
addirittura impensabile far capire il proprio interesse per un uomo. L'iniziativa doveva
essere, per for_
za di cose, dell'innamorato, il quale arrivava ad organizzare, con l'aiuto degli amici
più intimi, un'infio_
rata "amorosa" che era l'equivalente di una dichiarazione d'amore.
Questa veniva fatta, dunque, quando un giovane voleva dimostrare alla ragazza che amava
l'affetto
che provava per lei.
Di giorno l'innamorato andava a raccogliere i fiori che trovava nei prati e nei campi,
margherite, bian_
che o gialle, papaveri, fiordalisi, mimose, rose selvatiche ecc...
L'infiorata veniva preparata la notte, poteva raggiungere anche una decina di metri di
lunghezza e ter_
minava davanti alla porta di casa della ragazza. A volte, se in casa c'erano due o tre
fanciulle in età da
marito, queste litigavano per decidere a chi fosse indirizzata l'infiorata, finchè un
amico o una vicina ri_
velava chi ne era stato l'autore. Poteva anche capitare che l'infiorata fosse stata fatta
da uno "spasi_
mante" diverso dal fidanzato. Oltre a quella amorosa c'era l'infiorata
"dispettosa" per la quale si utiliz_
zavano frasche o paglia o segatura, che veniva fatta dal giovane che, essendo stato
lasciato, deside_
rava vendicarsi con questo "dispetto".
Qualche volta l'infiorata era accompagnata da una serenata dispettosa che diceva così:
"Brutta civet_
ta te si messa a fa l'amore cò chi passà, passato lo mi amor te ce si messa...".
Poteva succedere che l'infiorata dispettosa venisse fatta dalle donne per gli uomini che
si vantavano
di essere belli o quando le loro madri li consideravano i più belli tra i compagni o i
più belli del paese.
La Signora Sesta MANASSEI racconta:
venivano
utilizzati fiori di stagione, a primavera e d'estate si fa_
cevano spesso per l'abbondanza e la varietà di fiori di cui si poteva disporre.
Se un ragazzo aveva il rifiuto da una donna, erano gli amici stessi a fare l'infiorata
dispettosa.
A me è capitato di ricevere un'infiorata amorosa; l'emozione che ho provato, quando ho
aperto la por_
ta, era indescrivibile; naturalmente l'infiorata era anonima, ma dopo un pò di tempo sono
riuscita a ca_
pire chi mi mandava il messaggio attraverso dei fiori così belli, io, però, non provavo
alcun interesse
per quel giovane che, dovette rassegnarsi e mi fidanzai invece con Antonio, che diventò
mio marito, il quale mi fece una delle più belle e più grandi infiorate che si siano mai
viste in paese".
Bergantili
Ilaria - Innocenzi Gina (Classe III/L)
L'ALIMENTAZIONE
Di fronte alla
possibilità di scegliere tra questo o quel piatto, tra questo e quel contorno, tra la
carne
arrostita o in umido o impanata ecc., quante volte diciamo:
"Non ho fame ! No, non mi piace, non ho
voglia"
e subito la nostra
mamma, preoccupata e premurosa, è pronta a dirci:
"Allora, ti faccio un pa_
nino col prosciutto !" "E va bene !"
rispondiamo, tanto per chiudere il discorso e non litigare. Ma una
volta, i ragazzi come noi, potevano mai permettersi di dire:
"Non mi piace e non mi và ?".
Le nostre nonne ci raccontano che c'era poco da
battere i piedi e si doveva mangiare quello che passava il con_
vento e il "companatico", cioè ciò che si mangiava con il pane, non c'era
quasi mai, sopratutto in quei
brutti anni della guerra che hanno costretto tutti, giovani e adulti, a fare grandi
sacrifici e ad adattar_
si a mangiare qualsiasi cosa purchè commestibile.
Alla base dell'alimentazione, in una società contadina come la nostra, c'era il pane. Il
pane si inzuppa_
va nel latte la mattina, nel sugo a mezzogiorno e nella minestra la sera, ed era fortunata
la famiglia
che ce l'aveva a suffucenza. Nel nostro paese fino a una quarantina di anni fa, le donne
lo preparava_
no in casa e andavano poi al forno a cuocerlo. Chi viveva nei casali lo preparava e lo
cuoceva da sè
nel forno a legna annesso o vicino al fabbricato. Ci spiega la signora Delia Fabiani:
"Si impastava la fa_
rina con l'acqua e con la pasta lievitata della volta precedente. Si dava la forma alle
pagnotte che si
lasciavano lievitare per molte ore e quando erano abbastanza sollevate, si cuocevano e si
aveva il pa_
ne per molti giorni che si conservava nel "catino" o "madia". Le donne
di una volta preparavano, in estate, la conserva di podoro che serviva per un inverno
intero".
La Signora Delia ci dice come si preparava:
"Si facevano bollire i pomodori maturi, poi si stendevano
sulle tavolre a scolare. Il pomodoro così ristretto si conservava in barattoli sigillati,
pronto per essere usato per il sugo. Per prepararlo si batteva il lardo che, dopo, si
metteva a soffriggere e si aggiungeva acqua e conserva, un pizzico di sale e si faceva
bollire per un'oretta".
La pasta all'uovo si faceva, come si fa oggi, unendo la farina di grano con l'acqua e le
uova. Si impasta_
va il tutto fino ad ottenere un impasto soffice che si lavorava con il mattarello fino ad
ottenere una sfo_
glia sottile che si arrotolava e infine si tagliava a striscioline più o meno sottili. Ma
la pasta all'uovo si faceva per le occasioni più importanti o per le feste.
Per tutti i giorni si preparava la pasta fatta con acqua e farina che veniva lavorata a
mano per ricavare
gnocchetti o gnocchi con il ferro o gnocchi con la gratuggia.
Molte volte si faceva la minestra per sostituire la pasta.
La minestra si preparava con ogni tipo di legumi: fagioli, ceci, cicerchie, fave. Si usava
un "callarello" pieno d'acuqa, ci si metteva un pò di conserva, l'olio, il sale
e infine si aggoungevano i legumi già les_
sati.
Quando l'acqua bolliva si faceva cuocere la pasta a quadretti.
La Signora Pina Purchiaroni ricorda: "Molte volte al mattino si preparavano le
pizzette di granturco che sostituivano il nostro cappuccino e biscotti.
Si faceva bollire dell'acqua in un pignattello e si prendeva una tavola sulla quale si
stendeva la farina e
al centro l'acqua. Si impastava e si faceva cuocere".
L'alimentazione
dei bambini
I bambini
venivano allattati al seno materno fino a due anni o anche più.
Le mamme di una volta non badavano alla linea, e davano volentieri il latte ai propri
piccoli, sapendo
che era fondamentale per la loro crescita e la loro salute. Esse conducevano una vita
faticosa, ma non
stressante come quella di oggi, l'alimentazione era povera, ma genuina, e, dunque, avevano
anche
latte in abbondanza, tanto da fare anche da balie.
Lo svezzamento, cioè il passaggio dal latte materno all'alimentazione degli adulti,
avveniva con il pan_
cotto.
Si faceva bollire, in un pignatto di coccio, pane, acqua e olio, vi si aggiungeva un
pizzico di zucchero,
quando c'era, oppure si dava ai bambini latte di capra con pane bruscato.
La merenda si faceva sempre con il pane bagnato con vino e zucchero, oppure, pane e
pomodoro, pa_
ne ed olio, insomma sempre pane e...
L'alimentazione
in tempo di guerra
Durante la guerra
quando nelle città si soffriva la fame (e già nei mesi a cavallo tra il 1941-42 la fame
cominciava a percorrere l'italia) molte donne in città coltivavano la terra di parchi e
giardini, "orti di
guerra", chi viveva nei paesi trovava ancora gli alimenti fondamentali e nei casali
ciò che era sufficen_
te in tempo di di pace, era molto in tempo di guerra; dunque dalla terra si ricavavano
anche patate, le_
gumi, o pomodori.
Il lavoro era duro per gli anziani e le donne che lo portavano avanti mentre gli uomini
erano a combat_
tere.
Ma la campagna offriva anche altre risorse importanti, come le erbe selvatiche
commestibili: raponzoli,
cicoria, asparagi, vitose, punte di rovi, caccaielli (bacche rosse della rosa canina) e
altro ancora.
Si utilizzava tutto e tutto era buono per fare minestre, anche le bucce dei piselli o
quelle delle patate;
la stessa acqua della rigovernatura dei piatti veniva usata per fare altre minestre.
Nel primo anno di guerra il governo impose il razionamento di molti prodotti, come il
pane, lo zucchero,
la carne.
Nel 1941 ogni cittadino aveva diritto a 200 gr. di pane nero al giorno, a 70 gr. di burro
al mese e a 2 chili
di generi di minestra: per avere tutto questo si doveva possedere la tessera annonaria.
Essa era un cartoncino grigio, con un numero, il nome e tanti tagliandini a ognuno dei
quali corrispon_
deva una certa quantità di pasta, di riso, di olio o di zucchero.
Le tessere erano diffuse anche nei paesi.
In quegli anni si mangiavano sopratutto legumi (le proteine dei poveri) che sostituivano
la carne e con
la farina di granturco si facevano le pizzette.
Il pane era l'alimento principale.
Il caffè che scarseggiava già prima della guerra era un lusso e veniva sostituito con un
surrogato di ci_
coria.
La Signora Giustina Ricci ricorda il periodo della guerra e ci racconta:
"I nostri casali diventarono, du_
rante la guerra, ricovero e rifugio per molti sfollati, cioè tutte quelle persone
costrette a lasciare le
proprie case per mettersi al sicuro dai bombardamenti.
Provenivano sopratutto da Orte e Orte Scalo, dove, essendoci la ferrovia, i bombardamenti
erano mol_
to frequenti.
Qualche volta erano accolti dai parenti, ma spesso anche da casalanti estranei che davano
loro ospita_
lità per lunghi periodi".
Lavoro di
Gruppo (Classe III/L)
IL BUCATO DELLE
NONNE
Oggi, nei nostri
supermercati abbiamo la possibilità di scegliere vari tipi di saponi e detersivi. Ci sono
quelli per i capi bianchi, per lana e delicati, colorati, detersivi adatti per il bucato a
mano e in lavatrice.
Ma le nostre nonne come lavavano la biancheria e gli indumenti che indossavano tutti i
giorni ?
Allora non c'erano nè la lavatrice, nè l'acqua corrente,nè i detersivi di oggi, eppure
l'igiene riuscivano
ad ottenerla, con grande fatica fisica, manuale, ma anche con grande inventiva e abilità
nello sfrutta_
re le risorse di cui si disponeva: cenere, grasso del maiale, grasso delle olive, infusi
di edera per i capi
scuri, argilla, ecc.
Le sostanze per sgrassare e igienizzare, erano tutti prodotti naturali, biodegradabili che
non danneg_
giavano l'ambiente, i prodotti che vengono usati oggi non lo sono al 100 %, possono
arrivare fino allo
80 %, e danneggiano l'ambiente.
Un metodo antico, ma efficace usato circa una cinquantina di anni fa, era quello del
bucato fatto con
la cenere, che unita all'acqua dava luogo alla lisciva.
Si metteva a bollire una caldaia di rame, quando l'acqua bolliva si aggiungeva la cenere.
I panni si
mettevano nel bucatale, o ziro, un grande recipiente di coccio o di legno alto circa 70
cm. con una boc_
chetta nella parte inferiore che si teneva chiusa e si stappava, per far uscire l'acqua
solo alla fine del bucato.
Il bucatale veniva coperto con un canovaccio di lino e di canapa, che doveva impedire alla
lisciva di
uscire.
Vi si metteva la biancheria, a strati, ben pressata, e si copriva tutto con un altro
canovaccio. I panni
restavano nel bucatale per una notte intera. Al mattino si stappava la bocchetta da cui
usciva la lisci_
va, che molto spesso veniva recuperata per lavare i panni di colore. Per lavare gli
indumenti neri si usava il fiele di bue diluito in acqua tiepida, che lasciava spesso un
odore sgradevole. Era preferibile
preparare un infuso di foglie d'edera: in quell'acqua il nero riprendeva la sua
lucentezza, perdendo la
opacità che lo rendeva triste e povero.
Per lavare i panni si usava anche il sapone fatto in casa con il grasso di maiale.
Questo metodo di lavaggio era diffuso fino agli anni '50, quando in Italia iniziò l'uso
dei detersivi in pol_
vere.
le nostre nonne non avevano la possibilità di comprare il sapone, allora lo facevano in
casa, usando il grasso di maiale. Dalle nostre interviste abbiamo appreso che il sapone
"a pezzi" si otteneva così: si
mettevano 10 litri di acqua in una caldaia di rame e quando l'acqua bolliva ci si
aggiungeva 1 chilo di
grasso di maiale e infine 3 etti di soda. Si mescolava il tutto con un bastone per tre
ore, e quando era denso al punto giusto, si stendeva su una tavola o su un panno di lino
facendolo raffreddare, ed infine
si tagliava.
La
risciaquatura dei panni
La risciaquatura
dei panni veniva fatta nei torrenti, nei fossi, tanto per ricordarne qualcuno:
"Fontana
delle trenta vecchie, Fontana Sasso, Fontana Camerata, Fosso di San Lanno, Fosso di San
Rocco"
(qualcuno di questi è coperto, ormai scomparso).
Le donne si caricavano in testa la bagnarola (grande recipiente di alluminio molto
pesante) con i pan_
ni da sciacquare, (o addirittura da lavare) e arrivati al torrentello si dovevano mettere
in ginocchio, e
mettevano in acqua i panni sbattendoli su una grossa pietra.
Dopo averli strizzati per bene, se li caricavano di nuovo in testa fino al Casale dove li
stendevano sul_
le siepi, sui prati, o su fili tesi da una pianta all'altra.
Chi viveva in paese andava a lavare i panni nei lavatoi pubblici, ricordiamo quello di Via
delle Mole, og_
gi ristrutturato o quello vicino al Mattatoio o quello, ancora, di Via San Lanno o di Via
San Salvatore.
Chi viveva in campagna doveva per forza andare al fosso o al torrente.
La
stiratura
Come si stiravano
i panni un tempo quando, sopratutto nei casali, non c'era l'elettricità ?
Oggi a noi sembra naturale stirare una camicetta, un pantalone, ecc.: apriamo l'asse da
stiro, prendia_
mo il nostro ferro elettrico e per di più a vapore stiriamo.
Un tempo, invece, per stirare i panni si usava un ferro da stiro vuoto con il manico di
legno che si riem_
piva al momento della stiratura, con il carbone ardente e si passava sui panni.
Era un'operazione abbastanza complicata, poteva fuoriuscire qualche frammento di brace e
danneg_
giare l'indumento.
C'erano anche dei ferri pieni che si mettevano a scaldare sulla brace o sulla stufa e per
non scottarsi
si prendeva un panno, si avvolgeva intorno all'impugnatura e poi si cominciava a stirare
fino a che il
ferro si manteneva caldo.
"Come
si lavavano i piatti"
Per lavare i
piatti si usava l'acqua di cottura della pasta, ma anche la soda e la pomice per le
pentole.
Non esistevano guanti di gomma e in questo lavoro quotidiano le mani si facevano
erreparabilmente
ruvide.
Nella lavatura dei piatti "raccomandava un testo di economia domestica", dai la
precedenza agli og_
getti meno sporchi: in questo modo dovrai cambiare l'acqua calda al massimo una volta.
Ricordati che tanto più l'acqua è calda, tanto più facile ti riuscirà la lavatura
delle stoviglie. Per evitare di scottare le
mani, aiutati con un pistone che ti fabbricherai da sola avvolgendo uno straccio intorno
alla pala di un vecchio mestolo di legno.
Lavoro di
Gruppo (Classe III/L)
PASSAGGIO DI
VENDITORI AMBULANTI
La signora
Fochetti Rosina, che oggi ha 67 anni, ci racconta di quando era bambina:
"Abitavo con la
mia famiglia nel casale conosciuto come il "casale de zi Federico", Federico era
mio nonno. Vi ho abitato fino a 17 anni, finchè non mi sono sposata. Vivevo nel casale con i nonni paterni, i
miei zii, che
avevano 4 figli, i miei genitori e le mie 3 sorelle, in tutto eravamo 13 persone legate da
vincoli di parentela.
Nel casale si viveva piuttosto isolati, lontani dal centro del paese è l'arrivo dei
venditori ambulanti era
un modo per dialogare, per avere notizie e qualche volta fare pettegolezzi.
Aspettavamo sopratutto gli arrotini, che arrotavano gli arnesi da lavoro, gli
"stracciaroli", che davano oggetti utili per la casa al posto di vestiti vecchi,
gli ombrellai, che aggiustavano gli ombrelli.
Ricordo che quando ero bambina ed
avevo circa 8 anni aspettavo tanto l'ombrellaio, perchè un ombrello si era rotto ed era già iniziato l'autunno con le prime pioggie. Ero sola, mentre gli
altri famigliari si
erano recati, come sempre, nei campi. Ero agitata perchè avrei visto aggiustare il mio
ombrello cui ero molto affezionata. Mentre stavo dando da mangiare al gatto, sentii
provenire da lontano un richiamo:
"Ombrellaio, è arrivato l'ombrellaio donne !". Corsi a prendere l'ombrello e
quando vidi che l'ombrellaio si stava avvicinando al casale gli feci un cenno con la mano, lui si affrettò e quando
arrivò glielo affidai. Portava con sè una cassetta di legno, che conteneva i ferri del mestiere,
l'ombrellaio iniziò il suo
lavoro mentre lo guardavo con quanto impegno e precisione lavorava. Eravamo seduti
davanti la porta di casa. Io, che ero una ragazzina vivace e curiosa, ogni tanto gli domandavo qualcosa
e lui, con poche parole, ma in modo gentile, rispondeva alle mie domande. In un quarto d'ora aveva
aggiustato il
mio ombrello e proprio in quel momento arrivarono i miei; mio padre, che lo conosceva, lo
invitò a cena
e l'ombrellaio accettò volentieri. Durante la cena l'uomo ci spiegò perchè faceva
l'ombrellaio dicendo
che era una tradizione di famiglia; insieme alle mie sorelle e alla mia cugina rimanevo
affascinata da
quello che narrava: ci parlava delle persone conosciute, dei tipi strani incontrati e per
farci divertire ci
raccontava perfino delle barzellette.
Quella sera, insieme a quell'uomo che
vedevamo solo una volta l'anno, ci divertimmo molto e quella
fu una serata diversa dalle altre.
Alla fine della cena, per ringraziarci di avergli offerto il pasto, mi regalò un ombrello
come quello dei grandi, ma più piccolo, di stoffa pesante verde con il manico e le
stecche di legno.
Un'altra volta, forse una domenica mattina, perchè stavo ancora dormendo, fui svegliata
da una voce
squillante: "Arrotino, è arrivato l'arrotino donne !" e cantava canzoni
antiche.
Corsi subito alla finestra e vidi l'arrotino arrivare insieme con una donna piuttosto
robusta, che era sua
moglie, giungevano in bicicletta, lui pedalava a fatica e lei era seduta sulla canna. Mi
accorsi che dietro
alla bicicletta c'erano un gruppo di ragazzini, che per prenderli in giro cantavano:
"Arrotino di Campobasso, pija la moje e la porta a spasso, la moje non ce vò ij, pija le botte e va a
dormì".
L'arrotino non si inquietava, continuava a pedalare fino a che qualche donna che abitava
nel casale vicino al nostro non lo avesse chiamato per fargli arrotare dei coltelli da cucina. Ci
impiegava circa mezza
ora, arrotava i coltelli con una ruota, che faceva girare pedalando.
Nel frattempo dalla mia finestra vedevo la moglie che faceva delle consegne e venne anche
a casa mia
per portare dei coltelli, che le aveva consegnato mia madre. Mamma chiese alla donna se
sarebbero
partiti subito e lei rispose che volevano prendere una stanza per dormire e che solo il
giorno dopo sarebbero ripartiti.
Mia madre chiese ancora: "Va a dormire e a mangiare nel casale rosso di Ernesto
Chiodi ?", lei rispose:
"Mio marito va nel casale rosso solo quando è da solo !".
Dopo aver preso un caffè, la moglie dell'arrotino disse alla mamma che sarebbe ritornata
la settimana
prossima insieme a suo marito.
Una volta, avrò avuto circa 10 anni, aspettavo con mia madre lo stracciarolo. Avevamo
messo da parte
un bel fagotto di stracci, un maglione di lana buona, che mi piaceva tanto, ma che non
andava più bene
a nessuna delle mie sorelle e delle mie cugine e quindi la mamma mi disse che l'avrebbe
messo tra le cose da dare allo stracciarolo, che passava il lunedi ed il sabato. Mentre
stavo aiutando la mamma nei lavori domestici, sentimmo una trombetta e un uomo che
gridava: "Stracciarolo, è arrivato lo stracciarolo donne !". Mi affacciai alla finestra e vidi un asino e un carretto con sopra un
uomo anziano, grasso
e brutto. Dicevano che veniva da Canepina.
La mamma gli fece un cenno dalla finestra, lui si accostò con il carretto, scese e venne
immediatamente
alla porta.
Quando io e la mamma gli consegnammo il fagotto, lui ci disse di scegliere fra due piatti
e tre bicchieri. "Così poco per tutta quella roba, scelsi i tre bicchierini, ma
quando la mamma gli offrì del vino lui ci regalò una forchetta.
Nel nostro paese nei casali non veniva solo questo stracciarolo, ma anche uno che abitava
a Vasanello, ma proveniva dalla Calabria, infatti veniva chiamato Peppe il calabrese: era
piuttosto anziano, sui settant'anni, un altro stracciarolo, proprio di Vasanello era Bruno Lannaioli, ma più tardi,
negli anni '50-'60.
Da Orte invece veniva Gennaro e urlava: "Lo stracciarolo in Piazza chi venne e chi
sbaratta !". Gennaro veniva almeno una volta alla settimana su un carro trainato da
un cavallo.
Ricordo anche che capitavano nei nostri casali i "seijai" provenienti da
Canepina, paese dove si praticava il mestiere tradizionale dell'impagliatore di sedie. Ricordo che arrivavano
generalmente una vol_
ta al mese, percorrevano tutte le strade del paese per fare in modo che nessuno rimanesse
escluso
neanche coloro che, come noi, abitavano nei casali.
Oltre a riparare le sedie che impagliavano con la "scarza", portavano dei cesti
di varie misure che vendevano ai contadini.
Impiegavano circa un paio d'ore per impagliare le sedie e svolgevano questo lavoro con
tanta abilità
che attiravano l'attenzione e la curiosità di grandi e bambini."
Fabiani Irene -
Fochetti Sara (Classe III/L)
L'ombrellaio Ambulante
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